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Paola Somma
Il muratore polacco
11 Luglio 2016
2016 Venezia Biennale Architettura
Questa volta il reporter di

eddyburg informa e riflette sull'assenza del lavoro dal palcoscenico e dalle parole della Biennale. Eppure, come il padiglione della Polonia giustamente sottolinea, si tratta di un "fronte" essenziale

Un paio d’anni fa, ad un giornalista del Guardian che le chiedeva se fosse turbata dalle condizioni di sfruttamento e di insicurezza nei cantieri dello stadio al Wakrah in Qatar, da lei progettato in vista dei mondiali di calcio del 2022, Zaha Hadid rispose che «non era suo compito occuparsene come architetto». Se ci sono problemi, disse, «riguardano il governo e non me… I have nothing to do with the workers». Alcuni famosi architetti presero posizione pro o contro le dichiarazioni della collega archistar; dopo di che il bollettino delle vittime- muratori indiani, nepalesi e bengalesi morti, feriti o comunque costretti a lavorare in condizioni che Human Rights Watch e Amnesty International equiparano alla schiavitù - ha continuato ad allungarsi.

A prescindere dagli orientamenti morali dei singoli architetti che, firmando un progetto ne vengono riconosciuti come legittimo autore, ma che mai hanno nessun rapporto con chi fisicamente realizza le “loro” opere, il “fronte” delle condizioni di lavoro in edilizia avrebbe potuto essere oggetto di interessanti rapporti da presentare alla Biennale. Ma tra le diciassette voci che Alejandro Aravena ha incluso nel suo elenco di «battaglie da combattere», e tra le quali figurano «qualità della vita e banalità… sostenibilità e mediocrità», non compaiono né la dignità né la sicurezza dei lavoratori. Nel complesso, il tema del lavoro è assente dalla mostra e nei pochi casi nei quali è preso in considerazione, l’attenzione è per lo più limitata alle difficoltà degli architetti alle prese con risorse finanziarie scarse e ai loro sforzi di fare “più con meno”.

Un’eccezione positiva e non abbastanza notata è il padiglione della Polonia, progettato da Dominika Janicka, Martyna Janicka e Michał Gdak, partendo dall’assunto che i cantieri costituiscano «il primo fronte dell’architettura, la manifestazione fisica di qualsiasi progetto in corso d’opera, che, nonostante il progresso tecnologico, continua ad avvalersi in gran parte del lavoro dell’uomo» e che i lavoratori edili siano la categoria meno rappresentata tra gli attori dell’architettura. «Il contributo dei lavoratori edili è assente dal discorso sull’architettura», è la loro sintetica opinione, dalla quale è auspicabile si possa partire per creare condizioni meno inique.

Il lavoro dell’uomo è il fulcro dell’intera installazione, dalla scritta che sovrasta l’ingresso del padiglione e che ci chiede provocatoriamente «conosci chi ha costruito il tuo edificio?» ai filmati, girati dagli stessi muratori, che ci restituiscono immagini, rumori, voci da undici grandi cantieri polacchi.

Senza nessuna evocazione nostalgica di epoche nelle quali l’architetto era solo il muratore/capo cantiere e ideazione e realizzazione procedevano di pari passo, e senza ricorrere ad aneddoti di tono oleografico, ad esempio Le Corbusier che teneva a battesimo i figli del suo “muratore sardo”, l’installazione si e ci interroga sulla possibilità di instaurare una relazione “giusta” tra il lavoratore, il prodotto del suo lavoro e chi ne trae profitto. Lo stesso titolo del padiglione “fair building” è un invito a riflettere sulla possibilità di applicare alle costruzioni, come ad altri prodotti, dalla cioccolata al caffè, i marchi del fair trade, altrimenti detto commercio equo e solidale.

L’installazione si compone di due parti. Nella prima, una impalcatura a grandezza naturale, si entra in cantiere assieme a chi vi lavora; nella seconda, dove eleganti divani suggeriscono l’atmosfera dello showroom di un investitore immobiliare, l’elemento più importante è lo schema grafico, che occupa un’intera parete e che sintetizza i dati di una ricerca, condotta dai curatori intervistando 50 addetti ai lavori, sul “costo umano” della costruzione e sul peso finanziario di voci come “incidenti, immigrati, straordinari non pagati”.

Si esce dal padiglione ponendosi delle domande inquietanti, il che conferma che l’obiettivo dei curatori di mettere a fuoco «le questioni etiche che ruotano attorno all’industria edile e i punti di vista di chi ne è direttamente coinvolto» è stato raggiunto.

Peccato che l’importanza del messaggio non sia stata recepita dagli organizzatori della Biennale che quest’anno indossa la maschera del capitalismo compassionevole. Del resto, la Biennale, in quanto istituzione, non è mai stata particolarmente sensibile nemmeno ai diritti di chi lavora al suo interno. In più occasioni ha disatteso accordi sottoscritti con i rappresentati dei lavoratori, provocando anche interpellanze parlamentari, rimaste senza risposta, sul suo comportamento. E non appena ha potuto, si è liberata anche del fastidio di doversi occupare delle “risorse umane”. Dal 2004 assunzione e gestione del personale sono state affidate all’agenzia Adecco Italia che, con lo slogan “better work, better life”, sostiene progetti culturali e internazionali, «offrendo ai candidati un’esperienza di lavoro in contesti unici ed emozionanti” e che, per la Biennale, ha definito dei “percorsi ad hoc dedicati alla formazione delle hostess, degli steward e di tutto il personale, così da assicurare standard elevati nella gestione dell’accoglienza e del supporto dei visitatori».

Riferimenti

Terzo intervento della serie "eddyburg dal fronte", dopo La cattiva coscienza della Biennale targata Rolex, e Infrastrutture: per le persone o per gli investitori? Altri articoli sulla Biennale Architettura 2016 ripresi dai media qui nell'apposita cartella
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