Le diverse origini semantiche di territorio e paesaggio
Paesaggio e territorio hanno una diversa semantica. La questione non ha solo un significato etimologico, ma assume un’importanza operativa nel momento che le politiche sul paesaggio sono sempre più rivolte ai cittadini come attori - ne fanno fede la Convenzione europea sul Paesaggio, ne sono prova i comitati che si mobilitano per difendere il loro paesaggio.
Ritorneremo su questo punto nelle conclusioni. Per ora ci basta accennare che il paesaggio nasce come presa di distanza dal “paese”, vale a dire come momento di contemplazione e riflessione sul territorio. Si deve, inoltre, aggiungere che sia territorio che paesaggio sono termini che si riferiscono a concetti, sono cioè paradigmi che servono ad estrarre da una realtà preintesa e non definita alcuni caratteri significativi rispetto alle intenzioni del soggetto; conseguentemente non esistono concetti univoci e consolidati, bensì relativi e variabili a seconda delle epoche, del senso comune, degli apparati disciplinari, della cultura e delle pratiche reali all’interno dei quali il termine viene concretamente definito.
Dal nostro punto di vista, cioè di pianificatori e progettisti che operano sul territorio è, inoltre cruciale quale concetto di paesaggio sia assunto negli apparati legislativi che tendono più che a sostituire un concetto con un altro ad operare una stratificazione dei diversi paradigmi, peraltro spesso non definiti e perciò con non pochi aspetti controversi se non addirittura contraddittori.
Tutto il territorio è (anche) paesaggio?
Vorrei iniziare questa riflessione a proposito dei rapporti tra i concetti di paesaggio e quelli di territorio – riflessione che è finalizzata ad evidenziare le conseguenze sul piano operativo dei diversi concetti utilizzati - con una domanda apparentemente banale: tutto il territorio è paesaggio? o sono “paesaggi” solo alcuni territori dotati di particolari caratteristiche e valori? Se rivolgete questa domanda agli esperti della disciplina paesaggistica nella stragrande maggioranza dei casi vi sarà risposto che ovviamente tutto il territorio è anche paesaggio e che non esistono solo paesaggi belli, ma anche paesaggi degradati o, più spesso, paesaggi della quotidianità - paesaggi che senza avere caratteri di particolare valore, tuttavia raccontano una loro storia e presentano una loro identità. Tuttavia la risposta non è così scontata se ancora negli anni ’80 del secolo scorso – in occasione del dibattito che fu aperto dalla approvazione della L 431/85 (la cosiddetta legge Galasso) che istituiva i piani paesistici (o piani urbanistico-territoriali con particolare considerazione dei valori paesistici-ambientali) – uno dei più autorevoli geografi italiani – Lucio Gambi – sosteneva che non tutto lo spazio è territorio e non tutto il territorio è paesaggio. Solo un territorio costruito con cognizione e coscienza dai propri abitanti, secondo Gambi, poteva essere definito come “paesaggio”. Gambi metteva in evidenza due fattori che, a sua avviso erano costituivi del concetto di paesaggio. Il primo è la sua costruzione sociale; il secondo è che questa costruzione sociale è avvenuta o avviene seguendo certe regole condivise che fanno sì che “un paesaggio” presenti una identità definita che si traduce anche in una riconoscibilità visiva.
A ben considerare questo paradigma di paesaggio è una versione storico-geografica del paesaggio inteso come territorio dotato di valore estetico e di testimonianze storico culturali – cioè il concetto di paesaggio che deriva dalla tradizione legislativa italiana, in una certa misura accolto nella legge 1497 del ’39 e che tutt’ora presiede alla individuazione dei cosiddetti “beni paesaggistici” e all’applicazione dei relativi vincoli.
La tendenza generalizzata dei pianificatori è – come si è accennato – di eliminare queste caratteristiche di valore dalla nozione di paesaggio e tuttavia questa posizione apre problemi rilevanti – sia sul piano concettuale sia sul piano operativo – problemi che in buona parte devono ancora essere risolti, a meno, ovviamente di elidere completamente il concetto di paesaggio in quello di territorio.
La definizione della Convenzione europea del paesaggio
L’importanza politica, la problematicità operativa
I concetti di paesaggio che attribuiscono questa “qualità (l’essere paesaggio) alla totalità del territorio e non soltanto ad alcune parti dotate di specifici valori trovano un fondamentale riferimento nel primo articolo della Convenzione europea del paesaggio siglata nel 2000, recepita con modifiche dal Codice dei beni culturali del paesaggio e da qui entrata nella legislazione regionale e nel PIT adottato. La Convenzione recita, infatti: " Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.
E’ evidente che la definizione implica che ciascuna parte del territorio è (anche) paesaggio dal momento che “un paesaggio” è “un territorio” così come è percepito dalle popolazioni. La definizione è indubbiamente importante da un punto di vista politico perché pone le “popolazioni” al centro della nozione di paesaggio, ma apre problemi spinosi dal punto di vista della pianificazione. In particolare occorre rispondere a tre domande:
a) come articolare il territorio in “determinate parti”?
b) cosa significa percepire un territorio (o se si preferisce un territorio percepito)?
c) quali popolazioni?
La prima e la terza domanda sono evidentemente collegate; la questione potrebbe essere risolta se il territorio fosse nella realtà attuale articolato in ambiti ciascuno dei quali riferito ad una specifica società locale, qualcosa di simile a quanto poteva essere osservato nel mondo preindustriale. Ma ai nostri giorni le articolazioni del territorio significative dal punto di vista dei caratteri paesaggistici e ambientali – ad esempio le unità di paesaggio con cui i piani provinciali, sia pure con criteri estremamente difformi articolano il territorio – non hanno alcuna relazione con specifiche società locali. Lo stesso concetto di società locale, intesa in senso comunitario, è contraddetto da stili di vita e comportamenti in cui il territorio viene vissuto come una rete fatta di relazioni e di nodi, piuttosto che di aree compatte. D’altra parte le circoscrizioni amministrative, in particolare i Comuni, che potrebbero essere considerati almeno in certi casi gli embrioni di nuove forme di socializzazione comunitaria hanno confini che quasi mai coincidono con delimitazioni paesaggistiche o ambientali significative. Non possiamo, quindi, nell’Italia contemporanea immaginarci una corrispondenza fra forme di organizzazione fisica del territorio e forme di organizzazione socio-culturale e probabilmente una stretta corrispondenza fra le due realtà non è mai esistita neanche nel passato se non in qualche particolare valle alpina o appenninica.
In altri termini, quali sono le “popolazioni” del Chianti, o della Val d’Orcia o della Versilia o della Lunigiana (faccio riferimento agli ambiti di paesaggio identificati dal Piano d’inquaramento territoriale della Toscana)? Sono solamente gli abitanti? O la gente che comunque ha un interesse (economico, culturale, affettivo) rispetto a questi territori?. Interessata ai destini delle colline di Fiesole o della Val d’Orcia o dei Monti del Chianti o delle coste toscane non è forse una popolazione assi più vasta, a volte una popolazione distribuita a livello mondiale? Perché dovremmo disinteressarci di un paesaggio in cui non abitiamo ma che amiamo e con cui sentiamo legami di appartenenza? Dobbiamo immaginarci un territorio in cui ognuno si sente padrone in casa propria come negli antichi municipi?
Infine, anche ammettendo che ogni popolazione decida rispetto allo specifico territorio in cui è insediata, dobbiamo ammettere che non vi è – salvo casi eccezionali – un’unica percezione del territorio stesso. Le percezioni non sono mai “ingenue” sono sempre mediate da apparati culturali e da interessi. Una ricerca sul Montalbano – un rilievo collinare montuoso ben definito da un punto di vista morfologico e con una sua identità storica - condotta recentemente ha dimostrato che gli abitanti hanno rispetto al paesaggio di questo territorio valori e d interessi diversi a seconda che siano coltivatori diretti, imprenditori agricoli, residenti stranieri, residenti pendolari e anche a seconda dell’età e della cultura all’interno di ciascun gruppo? Quale percezione deve prevalere? Quale è il paesaggio del Montalbano nel momento che si riconosce che il paesaggio non è un percezione immediata ma una costruzione culturale?
Lascio il compito di rispondere esaurientemente a queste domande ai sostenitori entusiasti della convenzione europea del paesaggio; qui mi limito ad osservare che i principi della Convenzione non possono essere applicati sic et simpliciter, ma hanno bisogno di un’elaborazione politica e culturale di non poco conto. Torniamo dunque al problema cui abbiamo accennato all’inizio di queste note, accettando dalla Convenzione europea in prime battuta l’idea che tutto il territorio sia paesaggio, senza affrontare per ora i nodi problematici aperti dalla definizione contenuta nel primo articolo dalla Convenzione stessa. Possiamo notare che nella legislazione italiana e specificatamente nel Codice dei beni culturali e del paesaggio siano presenti entrambe le nozioni. Il paesaggio come territorio dotato di particolare valore, nella normativa riguardante i beni paesaggistici e il paesaggio/territorio che si manifesta in tutte le possibili forme (dall’eccezionalità al degrado) negli articoli che riguardano la pianificazione paesaggistica. Qui si apre un’altra contraddizione sostanzialmente non risolta nel PIT toscano e che inevitabilmente ci riporta alla questione iniziale cioè alla distinzione fra i concetti di territorio e paesaggio. Distinzione che negli anni ’60-’70 del secolo scorso era stata risolta assorbendo completamente la nozione di paesaggio in quello del territorio (il paesaggio da molti urbanisti veniva addirittura considerato una frivolezza borghese) ma che viene riproposta in modo esplicito ed ineludibile dalla normativa vigente quando recita che:
"Lo Stato e le regioni assicurano che il paesaggio sia adeguatamente conosciuto, tutelato e valorizzato. A tale fine le regioni, anche in collaborazione con lo Stato, nelle forme previste dall'articolo 143, sottopongono a specifica normativa d'uso il territorio, approvando piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l'intero territorio regionale, entrambi di seguito denominati "piani paesaggistici".
I piani paesaggistici, in base alle caratteristiche naturali e storiche, individuano ambiti definiti in relazione alla tipologia, rilevanza e integrità dei valori paesaggistici.
"Al fine di tutelare e migliorare la qualità del paesaggio, i piani paesaggistici definiscono per ciascun ambito specifiche prescrizioni e previsioni ordinate"
(Art. 135 del Codice)
Il Codice sottolinea in più punti la specificità della disciplina paesaggistica rispetto a quella urbanistica e territoriale. Questa indicazione fondamentale non incontra problemi quando si riferisce a parti altrettanto specifiche del territorio, come i “beni paesistici” o le aree vincolate ex lege dell’art. 142. Le difficoltà e i problemi nascono quando il piano paesaggistico interseca e si sovrappone alla “normale” pianificazione territoriale, come nella definizione degli ambiti paesaggistici (che coprono tutto il territorio) per cui il decreto prescrive che siano individuate “...le linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibili con i diversi livelli di valore riconosciuti e con il principio del minor consumo del territorio, e comunque tali da non diminuire il pregio paesaggistico di ciascun ambito, con particolare attenzione alla salvaguardia dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO e delle aree agricole”.
Riassumendo: sembra che il Codice preveda una doppia disciplina paesaggistica. Una riservata ai beni e alle aree di particolare valore culturale o ambientale e una a tutto il territorio. Ed è questa seconda tipologia di disciplina che incontra notevoli difficoltà nella sua traduzione in termini di piano perché la distinzione fra paesaggio e territorio e quindi di ciò che è soggetto all’una o l’altra disciplina è quanto mai problematica.
Ricapitolando i termini del problema. All’art. 136 del Codice si dice che:
1. Ai fini del presente codice per paesaggio si intendono parti di territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni;
2. La tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili.
Inoltre, riassumendo altri articoli del codice stesso:
3. La disciplina paesaggistica riguarda l’intero territorio ed è specifica;
4. La disciplina paesaggistica è sovraordinata e cogente rispetto alla normale pianificazione urbanistica e settoriale.
Dunque sembrerebbe che la “traduzione” della Convenzione europea nel Codice possa essere la seguente. “ Paesaggio” sono i valori del territorio espressi come manifestazioni identitarie percepibili (da chi?). da cui segue che: La pianificazione paesaggistica è specifica anche se integrata con la normale pianificazione territoriale ed è volta alla tutela e valorizzazione di quei valori del territorio che sono percepiti come identitari (da parte delle popolazioni)".
La disciplina paesaggistica nel PIT della Regione Toscana
Vediamo ora come il Piano di Indirizzo Territoriale adottato tratta la disciplina paesaggistica. Impresa non semplice perché questa, anche se ha il suo cuore nello Statuto del PIT (la disciplina del PIT) è tuttavia distribuita in varie parti del piano:
Nello Statuto del territorio, la disciplina (specifica) paesaggistica è distribuita in modo ineguale nelle diverse invarianti e irregolarmente all’interno di ciascuna invariante. E’ praticamente assente nella prima invariante “ la città policentrica toscana”, del tutto assente nelle invarianti “ la presenza industriale” e “ le infrastrutture di interesse unitario regionale”, scarsamente presente nell’invariante “ il patrimonio costiero”, mentre appare ripetutamente nell’invariante “ il patrimonio collinare”. Va da sé che l’invariante “ I beni paesaggistici di interesse unitario regionale” si occupi di paesaggio nel senso di oggetti o aree dotati di un particolare valore, cioè nell’accezione restrittiva della nozione di paesaggio cui abbiamo fatto cenno all’inizio di queste note.
Non voglio in questa sede operare una disamina puntuale degli articoli e di commi dello Statuto che hanno un riferimento in qualche modo al paesaggio. In sintesi possono essere avanzate le seguenti notazioni.
A) Nonostante l’affermazione di principio che tutto il territorio è anche paesaggio, sembra che questa qualità sia riservata quasi esclusivamente al territorio collinare, mentre è assente nelle altre parti del territorio regionale e soprattutto nel territorio urbanizzato.
B) La tutela del paesaggio è quasi integralmente espressa come raccomandazioni ed indirizzi ai piani provinciali e comunali. Vale a dire che a livello regionale non vi è alcuna norma immediatamente prescrittiva, se si fa eccezione di un comma che riguarda il “ patrimonio collinare”che a seguito delle osservazioni presentate è stata estesa anche al patrimonio costiero:
- Il comma 8 dell’art 21 che recita: “ Nelle more degli adempimenti comunali recanti l’adozione di una disciplina diretta ad impedire usi impropri o contrari al valore identitario di cui al comma 2 dell’art. 20, sono da consentire, fatte salve ulteriori limitazioni stabilite dagli strumenti della pianificazione territoriale o dagli atti del governo del territorio, solo interventi di manutenzione, restauro e risanamento conservativo, nonché di ristrutturazione edilizia senza cambiamento di destinazione d’uso, né eccessiva parcellizzazione delle unità immobiliari”.
Tuttavia il valore prescrittivo della norma (che suona come una disposizione di salvaguardia) è condizionato dall’individuazione, ancorché provvisoria, dell’ambito in cui si applica (cioè dei confini del “ patrimonio collinare”), mentre sembra che una simile definizione non sia prevista nel PIT.
C) Le direttive e gli indirizzi contenuti nello Statuto sono genericamente rivolti alla tutela di valori paesaggistici (a volte definiti come identitari), ma quasi mai individuano con precisione questi valori. Un’eccezione è costituita dall’art 22 dove sono individuate alcune risorse del patrimonio collinare aventi valore paesaggistico. Tuttavia la norma si limita ad impegnare la Regione, le Province e i Comuni ad una corretta gestione di tali risorse.
D) La tutela del patrimonio collinare (continuiamo a riferirci a questa invariante strutturale, perché è l’unica che con i limiti già accennati appaia una disciplina specificatamente paesaggistica) si basa quasi esclusivamente su valutazioni ex-post dei progetti di trasformazione sulla base di criteri peraltro ambigui e facilmente eludibili, ad esempio:
a) la verifica pregiudiziale della funzionalità strategica degli interventi sotto i profili paesistico, ambientale, culturale, economico e sociale e – preventivamente – mediante l’accertamento della soddisfazione contestuale dei requisiti di cui alla lettere successive del presente comma;
b) la verifica dell’efficacia di lungo periodo degli interventi proposti sia per gli effetti innovativi e conservativi che con essi si intendono produrre e armonizzare e sia per gli effetti che si intendono evitare in conseguenza o in relazione all’attivazione dei medesimi interventi;
c) la verifica concernente la congruità funzionale degli interventi medesimi alle finalità contemplate nella formulazione e nella argomentazione dei “metaobiettivi” di cui ai paragrafi 6.3.1 e 6.3.2 del Documento di Piano del presente Pit.
d) la verifica relativa alla coerenza delle finalità degli argomenti e degli obiettivi di cui si avvale la formulazione propositiva di detti interventi per motivare la loro attivazione, rispetto alle finalità, agli argomenti e agli obiettivi che i sistemi funzionali - come definiti nel paragrafo 7 del Documento di Piano del presente Pit - adottano per motivare le strategie di quest’ultimo.”
In sostanza, lo statuto del PIT assegna ai Comuni il compito di verificare la congruità degli interventi che loro stessi propongono rispetto alla loro “funzionalità strategica”, agli “effetti innovativi e conservativi”, all’“efficacia di lungo periodo” alla “congruità funzionale”, e ad altri requisiti ancora più indecifrabili. E’ difficile immaginare che un Comune dichiari una propria previsione – magari lungamente contrattata - come non strategica, non innovativa, non funzionale e non efficace nel lungo periodo e che “le finalità degli argomenti e degli obiettivi di cui si avvale la formulazione propositiva dell’intervento non sia coerente con le finalità degli argomenti e degli obiettivi adottati dai sistemi funzionali del PIT”, il tutto dopo una verifica condotta e certificata magari dagli stessi estensori del piano.
Generalizzando l’esempio emerge l’idea che sta alla base di tutto il PIT. Il PIT non prescrive che le trasformazioni del territorio debbano corrispondere a regole statutarie - le regole con cui questi territori sono stati costruiti nel corso della storia e che definiscono a tutt’oggi la loro sostenibilità e la loro identità (ad esempio: nei territori collinari gli insediamenti devono porsi sulle dorsali e mai sulle pendici dei versanti; devono essere aderenti agli insediamenti esistenti e non creare nuovi poli di urbanizzazione; non devono utilizzare il tipo insediativo della lottizzazione); l’idea del PIT è, invece, che tutto si possa fare sulla base di verifiche rispetto a criteri estremamente vaghi se non fumosi, verifiche svolte a posteriori da parte degli stessi Comuni proponenti.
Impossibile un esame dettagliato della disciplina paesaggistica contenuta nel PIT e distribuita, come è stato notato - in una molteplicità di documenti. Tuttavia, in questo quadro complicato è doveroso proporre un esame, ancorché sintetico, delle descrizioni e direttive contenute nelle schede riferite agli ambiti paesaggistici e ai relativi obiettivi di qualità, componenti fondamentali del piano paesaggistico secondo il Codice.
Il territorio regionale è articolato i 38 ambiti paesaggistici. Per ogni ambito è stata preparata una scheda organizzata come una griglia in cui le diverse componenti territoriali (insediamenti e infrastrutture, territorio rurale, geologia, idrografia, ecc.) sono incrociate con i caratteri strutturali ed ordinari del territorio e con i valori relativi alla loro qualità ambientale, storico-culturale ed estetico-percettiva. Infine ogni scheda contiene, sempre per le stesse componenti, l’individuazione delle “relazioni strutturali e delle tendenze in atto” e degli obiettivi di qualità paesaggistica.
Il contenuto delle schede è abbastanza vario, perché si tratta di un tentativo di sistematizzazione di quanto poteva essere ricavato dai documenti esistenti in particolare dai PTC che sono estremamente diversificati sia per quanto riguarda l’approfondimento dei quadri conoscitivi, sia per quanto riguarda l’incisività e l’efficacia della normativa. In ogni caso è apprezzabile l’inquadramento metodologico delle schede che cerca di introdurre elementi di chiarezza concettuale in un panorama obiettivamente complicato.
Quanto agli obiettivi di qualità alcuni hanno un carattere specificatamente paesaggistico, altri riguardano politiche di natura economica e funzionale tuttavia in qualche modo legate agli obiettivi precedenti. Le schede sono chiaramente disomogenee, soprattutto per quanto riguarda l’identificazione dei “valori”, che in larga parte sono desunti dai decreti relativi ai vincoli paesaggistici esistenti. Sono evidentemente incomplete nell’identificazione delle relazioni strutturali e tuttavia possono essere prese come base di una disciplina paesaggistica, come elementi di uno statuto in cui la distinzione concettuale fra territorio e paesaggio possa produrre risultati positivi piuttosto che confusione e sostanziale inefficacia.
Inutile aggiungere, data l’impostazione generale del PIT che le schede rimandano alle Province e ai Comuni una loro traduzione operativa.
Conclusioni
Accettando in linea di principio la nozione di paesaggio contenuta nella Convenzione del paesaggio e recepita (sia pure in modo contraddittorio) nel Codice, vale a dire che si intenda per “paesaggio” i valori identitari del territorio, così come sono percepiti ed elaborati culturalmente dalle popolazioni comunque interessate (il cui nucleo è evidentemente costituito dagli abitanti), una disciplina specificatamente paesaggistica non può che basarsi sul riconoscimento di questi valori identitari. Tuttavia - sono sicuro che questa mia affermazione susciterà la contrarietà di alcuni esperti di paesaggio (mi auguro non di tutti) - la relazione fra paesaggio e popolazioni non può avere una natura meramente fenomenologica e riferita al presente.
Vi è una curiosa contraddizione fra il concetto di paesaggio come “eredità culturale e memoria” da tutelare e rinnovare e l’idea che chi abita qui e ora il nostro pianeta debba decidere cosa sia da considerare risorsa e cosa sia da buttare. Occorre quindi, quando si tratta di paesaggio, cioè di valori identitari del territorio, abbandonare il concetto di “risorsa” a favore del concetto di “patrimonio”. Il paesaggio perciò dovrebbe essere concettualizzato come patrimonio territoriale, cioè come un sistema costituito da strutture di lunga durata e delle regole inerenti la loro conservazione e trasformazione. Nella definizione di queste strutture e regole hanno voce le popolazioni attuali, ma anche quelle del passato, cioè coloro che le hanno faticosamente costruite e gestite, lasciandole a noi come eredità, e le popolazioni future, cioè quelle cui si riferiscono i concetti di sostenibilità. Definire lo statuto del territorio significa perciò individuare le strutture e le regole che formano il patrimonio territoriale che intendiamo trasmettere alle generazioni future, non come eredità immodificabile, ma come una combinazione di invarianti, cioè elementi da conservare nei loro caratteri costitutivi e di regole che devono presiedere alla loro trasformazione, regole che sono iscritte in parte nel loro codice genetico e in parte devono essere scritte di nuovo per rispondere ai problemi posti dall’innovazione tecnologica, dalla competizione, dal mercato.
Il territorio è quindi “un tutto” un sistema complesso, da cui i diversi punti di vista - ambientale, funzionale, paesaggistico - estraggono alcuni elementi e alcune relazioni come significative rispetto a specifiche intenzioni pragmatiche e anche semplicemente culturali e contemplative. Perciò il punto di vista ambientale legge il territorio come sistema di ecosistemi. Il punto di vista funzionale come complesso di risorse con le loro performances; il punto di vista del paesaggio legge il territorio – per ripetere le parole con cui Gian Franco di Pietro introduce il Piano territoriale di coordinamento di Arezzo - come “ l’unica impalcatura (territoriale) che sussiste... il luogo riconoscibile, la dimora, la grande casa comune, la dove si torna e si riconosce, la fonte del senso di appartenenza”.
Questa frase che a me sembra particolarmente felice sintetizza alcune qualità specifiche del concetto di paesaggio che finora abbiamo cercato di spiegare. La profondità storica, la strutturalità, l’essere fonte del senso di identità e di appartenenza. Senso di identità e di appartenenza che in certi casi sono dati, dove le trasformazioni della società locale hanno avuto una certa sedimentazione e in altri deve essere costruito. Lo statuto del territorio – come piano paesaggistico – articolato in diversi livelli strutturali che possono accordarsi con diversi livelli istituzionali - è una grande occasione per rendere attuali le identità storiche e per costruire nuovo senso di appartenenza.
In eddyburg:
- il testo e alcune riflessioni sulla convenzione europea del paesaggio sono contenute nella cartella BBCC, paesaggio, ambiente;
- critiche e commenti relativi al nuovo PIT della Regione Toscana sono raccolte nella cartella dedicata alla vicenda di Monticchiello.