Da una Tangentopoli all’altra? Potrebbe sembrare che la vicenda politica di Berlusconi stia andando incontro a un destino speculare e opposto rispetto alla sua origine. Nato sull’onda della reazione popolare alla catastrofe etico-giudiziaria dei partiti di governo della Prima Repubblica, e al contempo come supplenza rispetto agli assetti di potere che ne costituivano la sostanza materiale, il suo lungo e fortunato impegno politico corre oggi il rischio di perdere la sua legittimazione profonda. Che era consistita - e in parte ancora consiste - nel mutare la forma della politica, cioè nel trasformare progressivamente la democrazia repubblicana in un regime populista, nel riferirsi al popolo-massa più che alle istituzioni, nello stabilire un patto di intensa fiducia personale, emotiva e quasi corporea, con i suoi fedeli, nel fare del suo stesso partito un "popolo", unito dalla ferrea convinzione che il "fare" del suo Capo sia infinitamente più sano, efficace e onesto delle parole ipocrite, e del malaffare, della politica tradizionale, della "casta" (identificata per lo più con la sinistra).
È l´identificazione fra il leader e la sua gente a spiegare come sia stato e sia possibile che gli interessi personali e settoriali di una sola persona e della sua cerchia siano presentati (e percepiti) come interessi di tutti - si pensi alle esigenze processuali del Cavaliere, di cui si è cercata la soluzione con il "processo breve" - ; e come il plusvalore ideologico dell’antipolitica, incarnata dal superpolitico Berlusconi, abbia chiuso gli occhi di tanti suoi elettori davanti ai suoi insuccessi, e agli scandali che da ogni parte occupano ormai la scena pubblica (fino a quando non ne sarà punita per legge la divulgazione).
Ora questa magia - questa proiezione collettiva - sta finendo. Già intaccata - come si è visto nelle recenti elezioni regionali - dagli scandali personali della scorsa estate e dalla prima ondata dell´inchiesta sul G8, la credibilità politica di Berlusconi rischia di subire un duro colpo dall’emergere di un meccanismo di corruzione e di favoritismi che non è più spiegabile, come pure si è tentato di fare, con la teoria della mela marcia o della pecora nera, ma che assume, con ogni evidenza, carattere sistemico. Non è certo l’antica corruzione: quella aveva il suo perno e i suoi attori principali nei partiti; questa invece vede protagonisti gli affaristi, i costruttori, gli appaltatori, che hanno rovesciato i rapporti di forza rispetto ai singoli politici, che sembrano coinvolti assai più a titolo personale che per finalità di partito.
Tuttavia, è lecito dubitare che questa distinzione, pur importante, appaia decisiva agli occhi degli elettori del Pdl. È più probabile, invece, che lo smottamento del consenso divenga una frana, davanti a quello che potrebbe essere percepito come il ritorno della vecchia politica, e quindi come il tradimento del patto di fiducia antipolitico che lega il Capo alle masse. La cui psicologia collettiva comprende anche il rischio dell’abbandono, della delusione, dell’avversione per quello che fino a poco prima era l’oggetto d’amore. E questo rischio è tanto più significativo quanto più odioso potrebbe apparire il rovesciamento perverso del fiore all’occhiello di questi ultimi anni di governo: l’agire pronto, efficace, esemplare - tra l’aziendale e il comunitario - , della Protezione Civile. Che, operando secondo procedimenti d’emergenza davanti alle emergenze a cui deve far fronte, voleva essere la più visibile ed eloquente manifestazione del "fare" berlusconiano, la controprova pratica della sua ideologia. E che invece sta diventando - pare - la voragine, l’autentica emergenza che delegittima il potere del Cavaliere. A dimostrazione del fatto che l’eccezione, se elevata a sistema di governo, si ritorce contro chi ne abusa.
Consapevole del pericolo che si parli di una "casta" berlusconiana sottratta alle leggi ordinarie - e anche dell’aggravante costituita dalla circostanza che la corruzione riguarda le case, il bene più caro agli italiani, per il quale le persone comuni si sacrificano per lunghi anni - Berlusconi riscopre ora la legalità e la normalità; che non appartengono certo al suo usuale repertorio politico e che paiono giustificate solo dall’esigenza di recuperare consenso e di stringere nuovamente il patto antipolitico con la sua gente, anche contro i "suoi" politici. Legalità non come filosofia politica, quindi, ma come ultimo espediente del populismo, come ultima paradossale risorsa del leader carismatico. Che non cessa infatti di polemizzare contro la "macelleria giudiziaria" delle "liste di proscrizione", e che - data anche la linea dei giornali d’area governativa - pare tentato di assumere a sua volta la postura del Capo tradito dai propri collaboratori sleali e mediocri, sui quali si può abbattere l’ira popolare, e la "purga" politico-giudiziaria. L’eccezionalità, d’ora in poi, resterà appannaggio esclusivo del Capo (il lodo Alfano prosegue il suo iter), e non coprirà più i comprimari.
La questione è ora se questo tentativo di Berlusconi di avere le mani ancora più libere (magari con un rimpasto, o un allargamento della maggioranza) avrà successo, o se invece il Capo carismatico ferito non sarà condannato - dato che le elezioni anticipate dovrebbero ora apparirgli non più molto appetibili - a continuare a governare, sempre più debole e sempre più sottoposto alla tutela di Bossi e Tremonti. Una prospettiva, questa, non certo utile al Paese.