Prosegue alacremente il cantiere di smontaggio dello Stato. Sotto l’etichetta di "federalismo demaniale", passano a Regioni ed enti locali 19.005 unità del demanio dello Stato, per un valore nominale di oltre tre miliardi.
Mente Calderoli quando afferma (La Padania, 7 maggio) che i beni trasferiti «demaniali sono e demaniali resteranno». Il demanio non è una forma di proprietà, ma servizio pubblico nell’interesse generale di tutti i cittadini, per questo è inalienabile. Al contrario, i beni trasferiti possono essere «anche alienati per produrre ricchezza a beneficio delle collettività territoriali», o saranno versati in fondi immobiliari di proprietà privata; la legge incoraggia anzi i Comuni a produrre varianti urbanistiche che ne consentano non solo la mercificazione, ma la cementificazione, sigillata e garantita dai ricorrenti condoni edilizi (l’ultimo disegno di legge, presentato dal Pdl, sana con un sol colpo di spugna tutti i reati contro il paesaggio e l’ambiente commessi o da commettersi entro il 31 dicembre 2010).
La manovra Tremonti, approvata sulla parola e senza il testo finale da un Consiglio dei ministri assai ubbidiente, aggraverà lo stato delle finanze locali, strangolando ulteriormente Comuni Province e Regioni. Il taglio previsto, quasi 15 miliardi nel biennio 2011-12 (4 miliardi ai soli Comuni), obbligherà i Comuni ad alienare l’alienabile, e a concedere licenze di edificazione a occhi chiusi, pur di incassare gli oneri di urbanizzazione, un tributo che, contro la ratio originaria della norma Bucalossi (1977), si può ora utilizzare nella spesa corrente per qualsiasi finalità. Ai sacrifici richiesti ai cittadini (basti ricordare la riduzione imposta al Servizio sanitario nazionale: 418 milioni nel 2011, 1.132 milioni dal 2012 in poi) si aggiungerà dunque l’ecatombe delle nostre città, del nostro paesaggio. Le disposizioni in materia di conferenze di servizi (art. 49 della bozza), che riprendono il disegno di legge Brunetta-Calderoli sulla cosiddetta "semplificazione della pubblica amministrazione", vanificano gli argini posti dal Codice dei Beni Culturali. Secondo la nuova norma, ogni volta che il Codice richiede l’autorizzazione di interventi edilizi che incidano sul paesaggio, «il Soprintendente si esprime in via definitiva in sede di conferenza di servizi in ordine a tutti i provvedimenti di sua competenza»; la sua eventuale assenza dalla conferenza dei servizi equivale al pieno consenso del Soprintendente.
Viene in tal modo riesumato e radicalizzato il principio del silenzio-assenso, un istituto che sin dalla legge 241 del 1990 non può applicarsi «agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico», come ribadito più volte, dalla legge 537 del 1993 alla legge 80 del 2005 (governo Berlusconi). Invano il ministero dei Beni Culturali, che aveva ottenuto la soppressione di analoghe norme almeno due volte (nella Finanziaria 2008 e nell’abortito decreto-legge sul "piano casa"), ha richiamato il governo al rispetto della legge. Ma la tutela del paesaggio imposta dall’art. 9 della Costituzione richiede che, in una materia così sensibile, il previsto giudizio di compatibilità degli interventi edilizi con il valore culturale del bene venga formulato espressamente e dopo attenta valutazione: il silenzio o l’inerzia non può in alcun modo sostituire l’attivo esercizio della tutela, che l’art. 9 della Costituzione pone fra i principi fondamentali dello Stato. Lo ha espressamente dichiarato la Corte Costituzionale in almeno cinque sentenze: in questa materia «il silenzio dell’Amministrazione preposta non può avere valore di assenso» (sentenza nr. 404 del 1997). Il silenzio-assenso, nato per tutelare il cittadino contro l’inerzia della pubblica amministrazione, non può diventare un trucco per eludere la legge col sigillo di una norma anticostituzionale.
Ma c’è di peggio, e lo ha ben visto Eugenio Scalfari (Repubblica, 30 maggio), che ha lucidamente disegnato la «prospettiva raccapricciante» di un’Italia a due velocità: «Federalismo al Nord e accentuazione del centralismo statale al Sud». La "manovra Tremonti" è anche troppo esplicita: prevede (art. 43 della bozza) che «nel Meridione d’Italia possono essere istituite zone a burocrazia zero». Burocrazia zero significa che per tutte le nuove «iniziative produttive» (non meglio definite) ogni procedimento amministrativo di qualsiasi natura viene «adottato esclusivamente dal Prefetto ovvero dal Commissario di Governo», e diventa operativo dopo 30 giorni. Non senza raccapriccio, immaginiamo dunque, domani o dopodomani, un’Italia con il Nord governato dalla Lega e il Sud dai gauleiter della Lega.
Sotto la maschera bugiarda di un federalismo democratico, nuove forme di centralismo spuntano per ogni dove. Definanziando decine di istituti culturali (cito fra gli altri la gloriosa Scuola archeologica di Atene, a Napoli l’Istituto Croce e quello di Studi Filosofici, e così via), la manovra Tremonti sottrae ogni possibile finanziamento futuro di queste istituzioni al ministero dei Beni Culturali, e ne sposta la responsabilità alle Finanze e a Palazzo Chigi: una forma di commissariamento che espande ed esaspera, per contrappasso, quello che i Beni Culturali hanno fatto, dando Pompei a un commissario della Protezione Civile senza la minima competenza archeologica. Le centinaia di pensionamenti dell’alta burocrazia ministeriale, propiziati se non imposti dalla stretta pensionistica della manovra, decapitando numerosi uffici in tutto il Paese, favoriranno inevitabilmente un continuo ridisegnarsi delle competenze, in cui il diktat del ministero delle Finanze avrà sempre più peso, e agli altri ministri non resterà che rassegnarsi al silenzio-assenso.
Se tutto questo fosse fatto, come vuole la party line diffusa anche in quella che fu la sinistra, per contrastare la crisi e avviare la ripresa, potremmo provare a farcene una ragione. Ma incombe su questa interpretazione più d’un sospetto. Perché la devastazione del paesaggio e l’offesa alla Costituzione dovrebbero alleviare la crisi economica? Che cosa guadagna in coesione e in forza economica il Paese col "commissariare" l’intero Sud, riducendolo a una colonia a "burocrazia zero", cioè governata dai prefetti? Perché, se le casse sono vuote al punto da dover ridurre i finanziamenti alla sanità (mettendo in forse il diritto alla salute garantito dall’art. 32 della Costituzione), dovremmo ostinarci a voler costruire il ponte sullo Stretto? Il «tesoretto di Giulio», come qualche leghista ha affettuosamente chiamato i risparmi che la manovra dovrebbe mettere da parte, non servirà proprio a promuovere un federalismo i cui costi nessuno si attarda a calcolare? Lo smontaggio dello Stato serve ad assicurare la stabilità della moneta e il benessere dei cittadini, o ad accelerare la disgregazione del Paese voluta dalla Lega e dai suoi complici d’ogni colore, a velocizzare il saccheggio del territorio e la spartizione del bottino?