“Beati gli antichi che non avevano antichità”: La battuta di Denis de Diderot al tempo della famosa quérelle tra antichi e moderni sembra essere diventata un’aperta convinzione in politici e amministratori, se appena consideriamo il modo come trattano i nostri beni archeologici, e in particolare le antichità di Roma, che pure sono state nei secoli la meta obbligata della cultura del mondo. Non è esagerato dire che esiste un partito preso contro l’archeologia (complici anche letterati, storici e critici d’arte): lo dimostra la miserabile entità dei fondi che vengono stanziati per la conservazione del nostro più antico e illustre patrimonio. L’ultimo episodio si è avuto alla Camera durante la discussione sulla legge finanziaria 1990, quando pochi volontari hanno presentato degli emendamenti per mettere in grado la Soprintendenza archeologica di proseguire l’opera meritoria, svolta tra l’82 e l’87, di restauro, consolidamento e scavo delle antichità romane.
Da tre anni sono infatti esauriti i fondi stanziati da una legge dell’81, che ha preso il nome dall’allora ministro dei beni culturali Biasini: che è stata anche il primo e l’ultimo provvedimento apprezzabile dello stato per riparare ai danni causati dall’orribile corrosione delle pietre antiche sotto l’impatto dell’inquinamento atmosferico. Con quei fondi, la soprintendenza ha condotto la più vasta campagna di restauro delle antichità mai tentata, ha provveduto al consolidamento dei maggiori complessi monumentali e ha eseguito scavi nel suburbio per acquisire una conoscenza approfondita del territorio ed evitare quindi distruzioni in caso di lavori e sterri per opere di urbanizzazione.
Con l’esaurimento dei fondi, quest’opera meritoria viene non solo interrotta, ma vanificata per l’impossibilità di svolgere l’indispensabile e continua attività di manutenzione, mentre non vengono rimossi alla fonte i veleni atmosferici, prima fra tutti le esalazioni del traffico; le più straordinarie vestigia dell’arte e dell’architettura romana finiranno con lo sfarinarsi in gesso tra poche generazioni. Per questo, nella discussione sulla legge finanziaria, il sottoscritto ha presentato un emendamento perché la soprintendenza romana venisse rifinanziata in modo adeguato (210 miliardi in tre anni).
“Onorevoli ministri”, ha detto ingenuamente, “quando vi riunite in consiglio voi potete ammirare dalle finestre di palazzo Chigi la Colonna Antonina che, in 514 metri quadri di rilievi, narra le gesta dell’imperatore filosofo: come non vi rendete conto che ogni giorno che passa questa meraviglia appena restaurata torna ad essere preda dell’inquinamento atmosferico, col rischio di andare perduta per sempre?”. Niente da fare: su 437 onorevoli presenti, 220 hanno votato no, 150 sì e 67 anime timorate si sono astenute. Così è successo anche per il successivo emendamento che stanziava qualche miliardo per dare il via agli espropri per la realizzazione del gran parco della via Appia Antica, invano vincolata a parco pubblico da un quarto di secolo.
Duecentodieci miliardi in tre anni per la salvezza di Roma antica sono l’equivalente del costo di una decina di chilometri di nuova autostrada, quelle autostrade così spesso inutili e dannose per le quali i miliardi si stanziano e si spendono a migliaia. Queste sono le priorità alla rovescia dei nostri politici e dei nostri benpensanti, come quei dannati danteschi che camminano con la testa girata all’indietro: sì che ’l pianto degli occhi / le natiche bagnava per lo fesso. Così che la soprintendenza archeologica di Roma dispone oggi di un paio di miliardi, tanto quanto basta per tener pulito il Colosseo e tagliar l’erba del Foro Romano.
Mancanza di fondi, furti, crolli, esportazioni clandestine: stiamo allegri, nel 1992 cadono le barriere doganali nella Comunità europea, e già c’è chi va predicando che le nostre leggi sono troppo severe, che i beni culturali sono merci e come tali devono essere sottoposti a leggi del mercato e del commercio e quindi circolare liberamente. Esultano i mercanti e si rifanno vive quelle teste fine che da anni sostengono che lo stato italiano debba disfarsi del “superfluo”, cioè vendere all’estero i materiali conservati nei depositi dei musei per fare un po’ di quattrini e risanare il bilancio. (Un insano disegno di legge del governo prevede l’alienazione dei beni demaniali, terreni, immobili, foreste eccetera, compresi evidentemente i beni culturali, dal momento che non dice nulla in contrario). I beni culturali sono invece l’unica “merce”, per usare questo termine degradante, che non deve circolare, perché sono legati, integrati e intimamente connessi all’area culturale, al contesto territoriale che li ha prodotti e dal quale derivano senso, sostanza e valore. Mettiamocelo bene in testa.