Viaggiando da costa a costa e dal nord al sud, la natura cambia, con contrasti meno bruschi che in Europa, ma spinti più all’estremo. Molto meno cambia il paesaggio delle cose umane, case, campi, città; c'è sì un vecchio fondo architetturale che varia a seconda se siamo nelle antiche tredici colonie (e tra queste, in quelle del Nord o in quelle del Sud) o nelle terre dei pionieri o negli stati ex spagnoli; ma gli aspetti della moderna America industriale e consumatrice sovrastano e unificano tutto il paese, il piccolo centro abitato sull'autostrada è uguale ovunque, con gli stessi cartelli e chioschi e bar e “cafeterias” e rivendite d'auto usate.
Uno di questi elementi unificatori, il più bello come fatto visivo e formale, tutto esattezza e slancio, è il nodo di autostrade cui si giunge sempre nelle vicinanze delle città; queste strisce d’asfalto sospese su alti pilastri a diversi livelli che si raccordano e si scavalcano in un incontro di ponti tutti curve e salite e discese. È un paesaggio astratto che, da Chicago a New Orleans, ritrovi un po’ dappertutto ed è il vero simbolo dell'America d’oggi.
Il grattacielo rappresenta solo il paesaggio di New York ed un tratto di strada di Chicago, ed è ormai antiquato, come oggetto in sé, anche quando si presenta sotto le forme moderne e bellissime delle nuove costruzioni in acciaio e vetro di Madison Avenue.
L’autostrada non s'arresta alle soglie della città, ormai la penetra, la sventra, la domina. Le "troughways", le strade di rapido attraversamento, cambiano la fisionomia della città, ne spostano tutti i rapporti, mettono in comunicazione quartieri lontani e isolano punti vicinissimi. La strada tra casa e ufficio non si fa più nel labirinto delle vie urbane, ma in un fulmineo canale tagliato nel mezzo della città, dal quale della città non si vede più nulla.
Ma proviamo a uscire dalla "throughway" a cercare la città. Dov’è? È sparita. Puoi girare (diciamo per esempio a Cleveland) per ore in macchina e non trovi quello che corrisponde al centro. Sì, c’è ancora un "down-town", un centro d’uffici, ma la città residenziale è sparita, si è sparsa su una superficie grande come una nostra provincia. La “middle class” vive nelle villette a due piani, rade nei quartieri sterminati di viali tutti uguali.
Non si può fare un passo senza auto, anche perché non c'è da andare in nessun posto. Non ci sono in giro botteghe di tipo tradizionale; ogni tanto a un incrocio di questi viali c’è uno "shopping center", un centro d’acquisto dove si può fare la spesa, ma per riempire il frigorifero ogni settimana è meglio andare nell’immenso “supermarket” più vicino. Credevamo che la nostra era fosse caratterizzata da un massimo di concentrazione urbana. Invece non lo è già più. Siamo nella fase della polverizzazione urbana; già la nostra civiltà, i costumi, la mentalità stanno cambiando; il mondo superindustrializzato sta tornando un mondo di piccoli nuclei familiari, stretti intorno al focolare (la televisione) come era fino a ieri solo il mondo agricolo.
Effetto del benessere? Ma nel Middle West i quartieri poveri sono esattamente la stessa cosa, le villette sono le stesse, solo che invece di una famiglia ce ne abitano due o tre e la costruzione, in genere di legno, si deteriora nel giro di pochi anni, diventa uno "slum".
È un tipo di casa che invecchia presto, come le automobili. e passa presto di mano in mano. Ma non è solo la casa singola: è tutto il quartiere a cambiare popolazione nel giro di cinque o sei anni. Quello che quattro o cinque anni fa era un “suburb” elegante adesso passa in mano alla borghesia negra benestante. Anche i negri poveri intanto hanno fatto un passo avanti, sono andati ad abitare nelle villette d’un “suburb” dove fino a qualche anno fa stavano solo ebrei. Ora che quello scaglione di ebrei ha migliorato la sua situazione economica ed è sciamato via, ognuna delle loro villette è stata divisa in appartamenti e affittata a famiglie negre. Le sinagoghe, ancora coi candelabri sulle vetrate e sugli archivolti, ora sono chiese battiste. Nel vecchio quartiere negro ora sono entrati i messicani; dove c'erano gli italiani ora ci sono gli ungheresi, ma le insegne dei negozi restano quelle di prima.
Più ci si inoltra nei quartieri poveri, più si scopre che il perpetuo movimento, prima ragione di fascino della civiltà americana, è ancora in atto. Esso non ha il volto roseo e pubblicitario della “American way of life”, ma testimonia una vitalità più profonda, sana anche nella sua rozzezza, nel suo sudiciume, nella sua violenza. Nei centri industriali come Cleveland o Detroit, chi troviamo come ultimi arrivati, ancora al gradino più basso, tra i non assimilati? Sono gli immigrati interni, i “poveri bianchi” della Virginia che vengono quassù a cercare lavoro nelle fabbriche, gli ultimi superstiti del puro ceppo anglosassone, fino a ieri i più refrattari al generale nomadismo dei loro connazionali. Gli orgogliosi e inetti figli d’una prospera società decaduta, spregiatori dei loro fratelli yankees produttivi e spregiudicati, eccoli ridotti a un livello economico e culturale inferiore ai loro antichi schiavi.
Con loro si chiude, non senza una sua morale, il ciclo delle rotazioni di popoli in uno spazio astratto, che corrisponde alla città dilatata ed esplosa così come la esplosione d’un corpo celeste muove il roteare dei pianeti.
(da Cartoline dall'America, "ABC", giugno-settembre 1960, ora in Saggi. 1945-1985, II, Milano 1995, pp. 2569-71)