L’Italia precipita in una rovinosa "democrazia del conflitto". Come è evidente, si fronteggiano due forze. Da una parte c’è lo Stato, con le sue ragioni e le sue istituzioni. Il simbolo dello Stato, oggi più che mai, è Giorgio Napolitano. Dall’altra parte c’è l’Anti-Stato, con le sue distorsioni e le sue convulsioni. Il paradigma dell’Anti-Stato, ormai, è Silvio Berlusconi. Dall’esito di questa contesa dipenderà l’assetto futuro del nostro sistema politico e costituzionale. La giornata di ieri fotografa con drammatica evidenza questa contrapposizione irriducibile tra due modi diversi di vivere la cosa pubblica e di interpretare il proprio ruolo nella "polis". Il capo dello Stato, in un’intervista al settimanale tedesco Welt am Sonntag, tenta di ricucire il tessuto lacerato delle istituzioni.
Si fa interprete dell’esigenza di responsabilità che si richiede alla politica e del bisogno di normalità che chiede il Paese. Si fa ancora una volta custode della Costituzione. Non per conservarla staticamente, ma per farla agire dinamicamente nella naturale dialettica tra i poteri. Questo vuol dire Napolitano, quando parla dei processi del premier osservando che si svolgeranno «secondo giustizia»: il nostro sistema giurisdizionale, incardinato coerentemente nel meccanismo della garanzia costituzionale, gli permetterà di difendersi davanti ai tribunali, di far valere le sue ragioni di fronte ai suoi giudici naturali.
Si tratta solo di riconoscere la legittimità dell’ordinamento giuridico e la validità dei suoi codici.
Si tratta solo di accettare l’irrinunciabilità di un principio che sta alla base della convivenza civile: la legge è uguale per tutti, tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. In altre parole, si tratta solo di riconoscere lo Stato di diritto, di difenderlo come una missione, e non di subirlo come una maledizione.
Invece è proprio questo che Berlusconi ha fatto e continua a fare. Il capo del governo, nel suo ormai rituale messaggio domenicale ai promotori della libertà, fa l’esatto opposto di quello che ha fatto e continua a fare Napolitano. Allarga lo strappo istituzionale, esaspera lo scontro tra i poteri, rilancia le «riforme della giustizia» a una sola dimensione: non quella dei cittadini, che chiedono un sistema giurisdizionale più equo, più rapido e più efficiente, ma quella del premier, che esige una magistratura umiliata, delegittimata e subordinata alla politica. Spaccare il Csm, separare le carriere, stravolgere i criteri delle selezioni dei giudici della Consulta, reintrodurre l’immunità parlamentare come mezzo per assicurarsi l’impunità politica, rilanciare la legge – bavaglio per negare ai pm l’uso di un prezioso strumento investigativo come le intercettazioni e per negare all’opinione pubblica il diritto di essere informata su ciò che accade negli scantinati del potere. Tutto questo non è nobile «garantismo liberale», ma truce avventurismo politico. Non è alto «riformismo costituzionale», ma bassa macelleria ordinamentale. «Atti insensati», quelli della Procura milanese? Piuttosto sono «atti sediziosi» quelli del premier. Ed è penoso, per non dire scandaloso, che su alcuni di questi atti trovi una sponda anche nel centrosinistra, che non sa più distinguere tra le leggi varate nell’interesse di una persona e quelle varate nell’interesse della collettività.
Con queste premesse, lo Stato di diritto non si difende né si migliora: va invece abbattuto e destrutturato. Questa è oggi la posta in gioco. Questa è la portata della guerra tra il Presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. Una guerra asimmetrica tra un capo del governo che l’ha dichiarata e la combatte ogni giorno, e un capo dello Stato che non l’ha mai voluta e ora tenta di disinnescarla. Ma in questa guerra, di qui al 6 aprile, il Cavaliere trascinerà ogni cosa. Trascinerà il governo, trasfigurato in una trincea dove l’unico motto di generali e luogotenenti è «credere, obbedire, combattere».
Trascinerà il Parlamento, trasformato nel «tribunale del popolo» che dovrà opporsi a qualunque costo al tribunale di Milano. Trascinerà il Paese, che non ha bisogno di «rivoluzioni» populiste né di pulsioni autoritarie, ma urgente necessità di una strategia per tornare a crescere, produrre ricchezza e occupazione, a offrire opportunità alle donne e futuro ai giovani. Questa è e sarà la guerra delle prossime settimane. Proprio per questo, in un momento così difficile, dobbiamo essere grati a Napolitano. Senza il suo Presidente, l’Italia sarebbe un’altra Repubblica.
«Monocratica», non più democratica.