È forse una previsione troppo pessimistica immaginare che l’Italia sia destinata negli anni a venire ad uscire dal club delle grandi nazioni industriali dove aveva raggiunto nel secolo appena trascorso addirittura il quinto posto. Un solo primato ci vedrà mantenere la testa di ogni classifica, anche se non si richiama agli exploit ambiti dai grandi Paesi industriali. Per contro è una vetta che ci contendiamo con Stati come la Bolivia, i Paesi petroliferi del Medio Oriente, quelli situati lungo le vie della droga, dall’Afghanistan al Messico. In questo eletto ambito all’Italia viene riconosciuto un ruolo incontestabile di campione mondiale dell’illegalità.
A conferma di queste affermazioni stanno i dati statistici degli organismi internazionali che, con fredda e apparente neutralità, certificano ogni anno che il tasso d’illegalità dell’economia italiana non ha pari nel mondo occidentale. E il perché invece stia nell’ultima casella come afflusso di investimenti stranieri. Non mancano naturalmente relazioni sui risultati raggiunti nel contrasto a mafia, camorra, ‘ndrangheta e alle sue diramazioni. Eppure, per quanti colpi queste organizzazioni subiscano, il loro fatturato aumenta sempre, mentre una specie di rassegnazione alla permanenza ineluttabile del fenomeno sembra essersi ormai impadronita dell’opinione pubblica, dopo la breve primavera di speranza che si era accompagnata ad una strategia chiaramente percepita, elaborata da Giovanni Falcone.
Quella fase si concluse con la strage di Capaci e l’uccisione di Borsellino. Per capire, però, i mutamenti intervenuti da allora bisogna por mente allo stravolgimento subito dai valori che stavano alla base della lotta al crimine: il primo era l’esaltazione, ampiamente accolta dalla pubblica opinione, della figura del magistrato e della sua funzione, percepita sovente come "eroica"; in secondo luogo, a partire almeno dall’assassinio di Salvo Lima e dall’arresto di Ciancimino, era apparsa sempre più inaccettabile la connivenza tra mafia e politica con il tramonto politico delle vecchie figure di raccordo tra i due mondi e l’emergere, soprattutto nella Dc, di leader non disposti al compromesso; in terzo luogo la valorizzazione e la protezione dei pentiti come arma essenziale per scardinare Cosa nostra.
Ebbene, oggi tutto questo si è tramutato nel suo opposto ad opera diretta del leader della maggioranza di destra ascesa al governo e dei suoi più stretti sodali. Quanto all’opposizione, i più critici nei suoi confronti le hanno imputato di anteporre i suoi interessi personali a quelli della cosa pubblica. Per contro incerta suona la voce di chi trova il coraggio per riconoscere che gli interessi personali del Cavaliere e, in primo luogo, i "contro-valori" che ne propiziano l’affermazione, collimano con l’odio per la magistratura, per i pentiti, per le misure di contrasto, tipo il "concorso esterno", mutuati dal sentire mafioso. Se si approfondisse questa tematica si capirebbe meglio il nostro primato mondiale in termini di illegalità. Viene ora ad arricchire le potenzialità di un approfondimento, un libro (Soldi rubati di Nunzia Penelope, ed. Ponte alle Grazie, pag. 323) che apporta dati utilissimi e analisi per settore, partendo da tre numeri base: ogni anno in Italia abbiamo 160 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi di corruzione e 350 miliardi di economia sommersa, pari al 20% della ricchezza nazionale. Se vi si aggiungono 500 miliardi nascosti da italiani nei paradisi fiscali esentasse si superano i 1000 miliardi. Più della metà dell’intero debito pubblico. Commenta il magistrato Francesco Greco, responsabile per i reati economici del defunto pool di Mani pulite: «Oggi la più importante operazione culturale da fare è spiegare agli italiani quali e quanti danni stanno subendo a causa della criminalità economica. Ma ho la sensazione che in Italia sia stata sdoganata l’illegalità e mi chiedo che futuro può avere un Paese dove l’illegalità diventa la regola».