A metà degli anni, novanta una giovane laureanda in storia, Vera Costantini, militante di Rifondazione, discutendo di politica se ne è uscita all’improvviso – una espressione quasi invidiosa – con un “fortunato te che hai fatto la Resistenza”[1]. Ho rimuginato nel tempo questa frase per una certa sua ambiguità – è proprio “fortuna” partecipare ad una lotta armata, per quanto la scelta sia volontaria? – ma insieme anche per la voglia che esprime di essere partecipe di processi storici fondanti, in critica aperta al tronfio pret-à-porter politico attuale. E alla fine anch’io debbo riconoscere di essere stato “fortunato” per aver partecipato alla Resistenza. Il primo salto, o passaggio, esistenziale e formativo è stato per me nella scuola, ma quello decisivo – ha dato il senso ai miei anni giovanili – si è attuato proprio nella Resistenza a cui è seguta naturaliter la “scelta di vita” nella militanza a tempo pieno nel Pci che poi ha dato significato a tutta la mia esistenza, anche quando ho partecipato, sin dagli anni sessanta e da sinistra, alla ricerca critica interna.
Mi sono deciso a scrivere ora queste note strettamente autobiografiche – cronaca[2] più che storia – perché alcuni amici, in particolare Mario Isnenghi, mi hanno fatto una certa pressione e anche perché, di questi tempi in cui la memoria fa troppo difetto per i miei gusti, mi pare giusto testimoniare su quello che, negli anni giovanili, mi ha animato e indotto ad agire. Rammento bene che una volta – a Turcato che mi mostrava una ennesima versione di uno dei suoi scritti memorialistici sulla Resistenza veneziana – ho chiesto se non gli sembrasse finalmente giunto il momento di por fine a tale tipo di scrittura per cominciare ad occuparsi invece di ricerca storica più approfondita e che mi ha risposto che anche la sua era ricerca storica, che anzi tale ricerca cominciava proprio da lì: non aveva tutti i torti e la mia tardiva ammenda, almeno in parte, s’invera in questo testo autobiografico. L’ho scritto poi anche perché i miei nipoti Federico e Donata, quando avranno qualche anno di più, possano leggere pagine dirette del loro nonno di quando era studente e partigiano.
L’arresto
Il 10 aprile 1944 – un lunedì di Pasqua – sono stato arrestato dalla Guardia nazionale repubblicana (Gnr): nel pomeriggio un milite in borghese è venuto a casa mia, a S. Elena, invitandomi ad andare subito con lui in caserma per “chiarimenti”. Non si atteggiava a duro: non ha risposto negativamente alla mia richiesta di passare da un amico per ragioni di scuola: volevo informare Eugenio Pignatti – facevamo insieme attività propagandistica – della cosa capitatami per metterlo in guardia. Ma a casa sua mi hanno detto che era stato prelevato la mattina (ma nessuna della famiglia era venuto ad avvisarmi) e la stessa sorte, saprò dopo, era capitata anche a Cesare Dal Palù e ad Alberto Capisani, sempre del nostro giro di studenti. Era così evidente che non si trattava tanto di un “chiarimento”, ma di un problema ben più serio.
Abbiamo attraversato tutta la città a piedi sino ad una caserma all’Angelo Raffaele, il milite sempre bonaccione. La Riva degli Schiavoni era inondata di sole, c’era molta gente per il giorno di festa. Ho pensato di fuggire nella confusione – vi era più di una possibilità – ma ho riflettuto anche che non avrei saputo dove andare: eravamo senza piani di fuga, anche per andare in montagna (erano saltati i contatti dell’autunno precedente attraverso cui avevamo mandato gente nelle formazioni, fra cui anche un mio amico). La clandestinità totale – al momento e in città – mi sarebbe stata praticamente impossibile per mancanza di un rifugio e di collegamenti per cui la prospettiva avrebbe potuto essere anche peggiore.
Ero in un momento di passaggio nella mia partecipazione alla Resistenza: dal gruppo di studenti con cui avevo operato sinora, ma con il limite dell’improvvisazione e della faciloneria, all’organizzazione comunista, con Giuseppe Turcato. Un mese prima, ai primi di marzo, gli avevo chiesto infatti di aderire al Pci: se ci dovevano anche essere tempi d’attesa per via della candidatura che tutti i nuovi dovevano fare – così erano le regole –, limitato era stato pure il periodo per inserirmi nel nuovo contesto. Non mi sembravano possibili, dunque, vie di fuga in queste condizioni. Tuttora resto convinto di non aver ragionato male, anche col senno di poi.
All’Angelo Raffaele – senza chiedermi o dirmi nulla – mi hanno messo in una cella non molto grande, con un tavolaccio che occupava metà dello spazio: avevo freddo e facevo fatica a deglutire, ho dormito poco. Alla mattina presto – ma non avevo orologio – è venuto uno in borghese a prendermi. Saprò dopo che si trattava di Ernani Cafiero ‑ scherano di Waifro Zani, l’ufficiale della Gnr addetto agli interrogatori degli antifascisti, entrambi condannati a morte, dopo la Liberazione, dalla Corte d’assise straordinaria di Venezia [3] ‑: aveva una rivoltella in mano (se ricordo bene una P 38 tedesca), allo scoperto, e mi ha detto freddamente “attento che sparo, senz’avviso” [4]. Mi ha condotto, sempre a piedi, a Ca’ Giustinian, sede della Gnr dove Zani aveva il suo ufficio. Ho il preciso ricordo di aver visto, durante il tragitto, sui muri, i manifesti di Ossessione di Luchino Visconti al San Marco (o al Rossini): ne avevo sentito parlare da alcuni miei amici come di un film assolutamente da vedere. Intanto, di passaggio, in una stanza avevo intravisto Pignatti, ma non ho potuto parlargli. Al mio turno, Zani – una rivoltella sul tavolo – ha cominciato l’interrogatorio.
Durante la notte avevo pensato a questa evenienza e al come dovevo o potevo farvi fronte. Saprò solo dopo che nell’organizzazione comunista il metodo era quello – per principio – di negare tutto, anche l’evidenza: ma allora nessuno me l’aveva detto e io non avevo la minima idea di cosa significasse la militanza comunista, il tribunale speciale, le condanne a vent’anni o trenta, il confino, la domanda di grazia come resa. Mi sono arrangiato come ho potuto, senza esperienza alcuna che si congiungeva ad una certa qual fierezza giovanile per l’attività svolta nella mia scuola – al ‘Benedetti’, il liceo scientifico veneziano – dove tutti sapevano come la pensavo. Ero stato uno dei promotori – improvvisatomi sul momento, come gli altri – subito dopo l’8 settembre, all’arrivo dei tedeschi a Venezia, di una manifestazione studentesca in campo S. Giustina, nel primo pomeriggio, durante la quale abbiamo cantato a squarciagola “Va fuori stranier” e gridato slogan contro nazisti e fascisti. Verso sera, in piazza S. Marco, abbiamo visto un gruppetto di ufficiali tedeschi in divisa che ammiravano la Torre dell’orologio: senza premeditazione – sospinto irrazionalmente al gesto – ho sputato sulla punta degli stivali di uno di loro. L’ufficiale ha avuto come un gesto di stupore ed io, subito, riconquistata la ragione, me la sono data a gambe nel dedalo di calli e callette. A scuola, reagivo d’istinto ai predicozzi fascisti del professore di disegno: spaccavo la matita, tossivo forte o guardavo per aria. Ero cioè consapevole dei miei comportamenti: non li potevo negare e qualcosa loro certamente sapevano, se mi avevano arrestato.
Anche perché, a fare il mio nome e quello degli altri, come saprò subito dopo, era stato Pignatti: i suoi poi hanno tenuto a spiegarmi che lo aveva fatto, su loro insistenza, perché era molto ammalato e non poteva assolutamente passare neanche un giorno in carcere e infatti è morto qualche anno dopo la Liberazione, credo proprio di tubercolosi. Eugenio era un giovane disponibile e colto, amante della musica: a casa sua ho ascoltato i primi dischi di musica classica. Aveva una particolare passione per un pezzo suonato da Menuhin che abbiamo ascoltato molte volte ma di cui poi non ricordavo più né autore né titolo. Qualche anno fa – verso la fine degli anni novanta – una mattina a Radio3, inopinatamente ho risentito e immediatamente riconosciuto con qualche emozione quel pezzo – un concerto di Max Bruch – di cui mi sono subito procurato il CD [5] per poterlo riascoltare per la musica, per il violino superbo ma anche per un ripercorso di memoria.
A Pignatti non gliene abbiamo mai voluto: anche lui era alle sue prime prove, senza esperienza e in una condizione di gran lunga peggiore delle nostre. Non era del nostro gruppo originario, ma inserito più tardi con altri che poi hanno anche subito l’intrusione di una spia di Zani – Sudessi, un giovane di cui non ricordo il nome e che abitava dietro la Toletta, fra l’Accademia e S. Barnaba – che, poco furbescamente dal suo punto di vista, li aveva subito denunciati senza tentare di scoprire di più sulla rete. Questo Sudessi l’ho poi ritrovato in carcere, dove si era fatto rinchiudere per continuare a fare la spia sperando di giocare sull’ingenuità e inesperienza dei giovani, ma senza concludere nulla, ché tutti comunque erano stati messi subito sull’avviso.
In questa condizione ho cominciato con lo spiegare a Zani – del resto con molta ingenuità, un po’ finta e un po’ no – che non tutti la potevano pensare allo stesso modo, che molti studenti erano contro i tedeschi per tradizione e, in breve, che avevo solo distribuito dei volantini con due persone (che sapevo già essere al sicuro). Naturalmente quel poco non l’ho detto di colpo, ma nel corso di tre interrogatori, ogni volta aggiungendo qualche particolare, più o meno inventato o adattato sul momento: hanno fatto i controlli, hanno riscontrato che queste due persone esistevano ma non erano a Venezia. La loro spia non aveva poi saputo portare nulla di significativo anche perché, in definitiva, non avevano grandi mezzi d’indagine né le tecniche adatte. Zani voleva farmi dire qualcos’altro, ma io avevo detto tutto quello che potevo dire senza danneggiare altri e non insistette molto, ché probabilmente pensava – non a torto in quel momento ‑ che non saremmo stati in grado di fare di più. Mi hanno così portato a S. Maria Maggiore, cella n. 91 dove, dopo qualche settimana, mi hanno consegnato una carta in cui mi si comunicava che ero stato condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello stato a due anni di carcere per “propaganda e associazione sovversiva” insieme a Dal Palù e Capisani [6].
Cominciava così la mia vita di carcerato, dopo le formalità dell’entrata: le impronte digitali, la consegna della cintura dei pantaloni e delle lacci della scarpe e l’assegnazione di gavetta e cucchiaio, oltre che di una coperta e di due lenzuola. Quando mi hanno chiuso in cella, sbattendo violentemente la porta e inchiavardandola da fuori con i catenacci – il senso fisico della separazione – rimasto solo, sulla branda, sono esploso in un pianto convulso: era solo un’esplosione delle tensioni, uno sfogo per la paura e la situazione nuova. Avevo diciannove anni e non ero mai rimasto fuori di casa: non tanto paradossalmente, alla fine, questo sfogo ha funzionato come superamento del momento di crisi aiutandomi ad affrontare la situazione con la dovuta fermezza. Ne ho passate molte, in carcere, ma non ho più pianto se non quando, dopo la Liberazione, ho assistito, nel cimitero di S. Michele, alla riesumazione dei corpi dei 13 di Ca’ Giustinian per essere ricomposti, trasportati e sepolti con una grande cerimonia popolare nel cimitero di S. Donà di Piave, in una apposita tomba collettiva.
Anzi, per molti versi, in carcere mi sono indurito. Addirittura ho fatto un passo per me importante: sono entrato cattolico e praticante e ne sono uscito ateo. Il cappellano di S. Maria Maggiore, don Marcello Dell’Andrea, era una amabilissima persona, antifascista convinto, ci aiutava in tutto, comprese le comunicazioni con l’esterno rischiando grosso e senza mai chiederci nulla in cambio, tanto meno sul piano religioso, e il parroco di S. Elena mi mandava i mozziconi delle candele della sua chiesa perché potessi leggere la sera, visto che chiudevano presto la luce, anche lui senza chiedermi nulla, ed io ho avuto sempre molta riconoscenza per questa loro solidarietà concreta. Ma a dio non credevo più: per me non aveva proprio più senso, per come andava il mondo e soprattutto per bisogno di razionalità. Non è stata un’abiura, ma un abbandono tranquillo, quasi scontato. Me ne è rimasto anche un ricordo materiale: in una delle prime celle ho trovato un crocefisso – quelli soliti di legno e in lega di una volta, sui venti centimetri – che poi mi sono portato dietro e nel cui rovescio scrivevo man mano, a penna con inchiostro, il numero della cella: Alla fine la scritta è risultata così:
W L’Italia / Arrestato politico 10/4/44 / celle 91 – 66 – 60 – 62 – 110 – 101 – T 13 – 130 – 163 – 13 – 165 – 158 / S. Maria Maggiore – Carcere di Venezia – Trovato nella cella n. 66 / Portato nelle celle n. 66 – 60 – 62 – 140 – 101 – T 13 – 130 – 163 –73 – 165 – 158 – 4 [7].
Quando sono uscito me lo sono portato a casa e l’ho riposto per poi dimenticarmene completamente. Due anni fa, sgomberando la casa dopo la morte di mia madre, l’ho ritrovato nel fondo di un cassetto della mia vecchia scrivania di studente, e ho provato una certa emozione rivedere quella fila di numeri di celle praticate a S. Maria Maggiore. Non l’ho buttato via, come per istinto stavo per fare, e lo conservo tuttora come una doppia memoria, del carcere e della ex fede.
Sono arrivato a S. Maria Maggiore nel primo pomeriggio: non avevo fame, anche se erano quattro giorni che non avevo praticamente toccato cibo (mi avevano dato qualche pezzo di pane in un passaggio che mi avevano fatto fare nella caserma ai Gesuiti). Solo la mattina dopo un bicchiere di brodaglia nerastra come caffè e verso mezzogiorno pane e una specie di minestra di rape. I primi giorni li ho passati in isolamento – solo in una cella, cinque passi per tre – senza neanche un libro o un giornale e senza un pezzo di carta e una matita: in pura contemplazione dei muri, delle inferriate e della bocca di lupo, dal di sotto per poter vedere una sottilissima striscia di cielo. Con la sola compagnia delle cimici. Alla mattina – unica forma di socializzazione carceraria e di movimento fisico – c’era un’ora di aria nei cortiletti insieme a gruppi di altri detenuti, frammischiati fra comuni e politici (allora non era fatta distinzione: per l’autorità si trattava in ogni caso di criminalità comune).
Ė stato in una di queste prime mattine di aria che ho incontrato Francesco Biancotto – un operaio diciottenne – in carcere da gennaio con un gruppo di partigiani di S. Donà di Piave imputati di azioni di sabotaggio. Mi ha avvicinato – probabilmente mi avrà visto un po’ stordito – e mi ha offerto una sigaretta e, per accenderla, ha preso un fiammifero da una scatoletta di svedesi mostrandomi, sotto, disegnata una falce e martello. Sono stato impressionato ma anche rallegrato: non mi sentivo più solo e ho fumato così la mia prima sigaretta e non ho più smesso per vent’anni, con più di qualche conseguenza nefasta. Poi anche da casa me ne hanno portato senza farmi tante prediche, ma anche il Cln – attraverso il cappellano – ci ha fatto pervenire del tabacco (immagino sia stato per iniziativa di Turcato), ma poi sono arrivato anche a fumare la paglia del materasso avvolta in carta da giornale (come, del resto molti altri) diventando un esperto arrotolatore di sigarette con le dita. Qualche settimana dopo, finito l’isolamento e non ricordo proprio come, mi sono ritrovato in cella con Biancotto e con Gianfranco Gramola, uno studente di Schio all’Accademia delle belle arti, allievo di Elena Bassi, arrestato per le stesse mie ragioni. Un piccolo sodalizio che ricordo ancora con suggestione.
Ma quell’isolamento non mi pesava: a distanza di tanti anni non ricordo come avvenne, ma nel tempo ho interiorizzato che mi è servito a fare un po’ di conti con me stesso. Mi trovavo molto cambiato, per certi aspetti non mi riconoscevo quasi più rispetto a solo qualche anno prima. Praticamente ero in carcere quasi per mia scelta: non che lo avessi cercato, ovviamente, ma avevo messo in conto che mi poteva capitare qualcosa, anche se certe efferatezze di repubblichini e nazisti dovevamo ancora conoscerle.
Stavo facendo l’ultimo anno di liceo scientifico, al Benedetti di Venezia: avevo imparato a leggere e a studiare piuttosto seriamente. Stimavo moltissimo alcuni professori che mi avevano aperto gli occhi in tutti i sensi. Guardavo ora gli avvenimenti terribili del fascismo/nazismo e della guerra sentendomi fortemente coinvolto e in dovere di fare qualcosa per la “libertà”. Avevo imparato ad assaporare questa parola, a declinarla nei vari significati, ne cominciavo a capire gli aspetti concreti nei diritti inalienabili che ci erano stati strappati a forza e di cui bisognava riappropriarci: un “noi” collettivo di cui non mi chiedevo come e da cosa potesse originarsi, ma che avvertivo necessario come l’aria e di cui percepivo in qualche modo il suo farsi in atto. Avevo avuto anch’io la mia passioncella per Croce e il “liberalismo” come traslazione politica della libertà, come “fondamento morale di tutti i programmi”, ché ne avevo potuto leggerne qualcosa alla Marciana o alla Querini ( La teoria della libertà del 1939 e il classico La storia come pensiero e come azione del 1938): soprattutto ai tanti giovani di scarse letture storiche e politiche come ero io, nel deserto del fascismo, in quei primi anni quaranta Croce appariva come “il faro della libertà”. Appunto, fantasticherie giovanili in mancanza d’altro in grado di fare i conti con la complessità sociale e storica, come comincerà ad apparirmi il problema solo pochi mesi dopo: il passaggio da “La storia come storia della libertà” [8] a “La storia […] è storia di lotte di classi” [9] mi è stato naturale, tutt’altro che difficile.
Uso Resistenza (al fascismo e al nazismo) con la R maiuscola per distinguerla dalla resistenza – per fare un esempio – del ferro da stiro Del pari, uso Liberazione con la L maiuscola per indicare specificamente il giorno della liberazione dai fascisti e tedeschi.
[2] Per tracciare un quadro autobiografico più contestualizzato, nel presente testo ho citato alcuni episodi già raccontati nella mia Introduzione a G. Turcato, Frammenti autobiografici, in “Venetica”, a. XIV, terza serie, n. 3, Cierre, Verona 2000, pp. 143-187 o ricordati nel mio intervento in occasione dell’”Omaggio a Francesco Semi” all’Ateneo Veneto (18 dicembre 2000), ma non pubblicati. Chiedo venia per tali inevitabili ripetizioni.
[3] M. Borghi – A. Reberschegg , Fascisti al la sbarra. L’attività della Corte d’Assise Straordinaria di Venezia(1945/47),Comune di Venezia, 1999, pp. 108-110.
[4] Solo più tardi capirò quanto questo avvertimento fosse per niente astratto: infatti Cafiero, in gioventù era stato uno squadrista dei “Cavalieri della morte”, comandati da Gino Covre, arrestato e accusato, insieme ad un suo ‘collega’, per l’assassino del portuale Bernardo Borile in fondamenta dei Carmini nel maggio 1922 (cfr. G. Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Il Poligrafo, Padova 2001, p. 192) e difeso “sulla stampa oltre che in tribunale” ( ib., p. 194) niente meno che da Piero Marsich; sarà poi anche l’esecutore del colpo alla nuca, oltre che di altri, di G. Tramontin, sfuggito per miracolo alla morte e, per finire, membro del plotone di esecuzione dei 13 a Ca’ Giustinian, come si dirà più avanti e come risulta dalla citata sentenza della Corte d’assise straordinaria di Venezia. Sinistro e a suo modo coerente itinerario di un ‘fascista della “prima ora”.
[5] M. Bruch, Violin Concerto No. 1 in G minor, Op. 26†, violino Yehudi Menuhin, Emi Records Ltd, 1993.
[6]Istituto Veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea (Iveser), Fondo C. Chinello, 6/10/1944, Tribunale speciale per la difesa dello stato, "Estratto di condanna", manoscritto su modulo, B. 1, fasc. 1
[7] Non so ora spiegare la differenza delle due serie di numeri.
[8]B. Croce , La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1943, p. 46.
[9]K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, Torino 1948, p. 94.