Credo che oggi la consapevolezza della necessità di governare le trasformazioni del territorio sia notevolmente cresciuta e che ciò sia avvenuto, più che per la persuasività delle argomentazioni di tecnici e scienziati, per la oggettiva forza degli accadimenti reali: le frane e le alluvioni, l’avvelenamento di acque e suoli, le malattie respiratorie da traffico, l’invivibilità degli agglomerati edilizi, privi di spazi verdi e di attrezzature sociali.
Nelle situazioni cui si è giunti, non si può pensare di rispondere a questa necessità se non dando adeguata attenzione, ed in modo integrato e contestuale, alle questioni ambientali, alle esigenze sociali, alle prospettive di sviluppo economico basate su una valorizzazione delle risorse territoriali, che perciò innanzitutto non vanno dilapidate.
Ciò può farsi soltanto combinando in forme coerenti politiche e programmi socioeconomici con la pianificazione urbanistica, che ha il compito di individuare – attraverso processi democratici assistiti da valutazioni tecnico-scientifiche – le parti di territorio che debbono essere tutelate (non solo le pendici franose, ad esempio, ma anche le superstiti aree naturali e i territori agricoli che ci forniscono cibo ed ossigeno) e quelle che possono essere invece trasformate (urbanizzate, edificate) per verificate esigenze socialmente rilevanti.
Considerazioni come queste sarei stato indotto a reputarle banali. Non lo penso più, dopo aver letto su queste pagine sabato scorso lo straordinario fondo di Diego Lama. Il suo commento alla vicenda del rione abusivo di una trentina di edifici “promosso” dalla camorra a Casalnuovo si apre con un richiamo a Mani sulla città, ma si chiude con la aberrante conclusione che “il vero nemico” è “il proibizionismo”: “più i nostri piani regolatori saranno vecchi, dirigistici, vincolistici, severi, non strategici ma coercitivi, più i cittadini tenteranno in tutti i modi di farsi in proprio il whisky, il crack o la palazzina di cinque piani”.
In due-tre righe si concentrano almeno tre tesi mistificatorie: la prima è che la definizione da parte di un’istituzione democratica di un piano che stabilisca quante costruzioni occorrano e dove si possano realizzare sia una manifestazione di proibizionismo; la seconda è che la libertà del cittadino includa tanto il diritto di bere liquori a casa sua quanto quello di costruire una palazzina di cinque piani in un’area che il piano (ossia la collettività, se ha un senso la democrazia rappresentativa) ha destinato diversamente in considerazione del complesso delle esigenze sociali; la terza è che un piano quando è strategico lasci liberi i cittadini di costruire quante palazzine vogliono e dove vogliono come se bevessero un whisky. Infine, conclusione implicita che è bene invece dire a chiare lettere: come ci si può indignare con la camorra se i piani regolatori sono così dirigistici e vincolistici ?
Stupefacente, davvero stupefacente. Complimenti !
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