In un intervento a un convegno promosso dalla Quadriennale di Roma sul tema «Arte e cultura degli anni Novanta», Deyan Sudjic si confronta con le modalità (perverse) di produzione dell’architettura contemporanea, più vicine alle tecniche della comunicazione pubblicitaria che alla ricerca sulla città e sulla gente che la abita. Quanto sia comunque difficile sottrarsi al mainstream culturale testimonia il fatto che lo stesso autore è stato membro della giuria per il concorso di riqualificazione del quartiere della fiera di Milano. Come critica alla qualità architettonica del progetto vincitore possono valere su tutte le parole di Antonio Monestiroli: “Napoleone, che conosceva bene Milano, e che per Milano ha voluto straordinari progetti spesso non realizzati, diceva che gli uomini amano il meraviglioso e che sono anche disposti a farsi ingannare pur di riconoscerlo. Ecco, qui sta il punto: da una parte c'è un bisogno diffuso di una città che sappia farci meraviglia, che sappia interpretare i nostri desideri, le nostre aspirazioni, i nostri ideali, dall'altra qualcuno pensa di meravigliarci con un gioco di specchi.” (GJF)
Circa tre anni fa le pagine patinate di Vanity Fair, la rivista americana per i fanatici dello star system che offre ai suoi lettori una dieta funesta ma irresistibile a base di celebrità, delitti borghesi e intrighi hollywoodiani, hanno festeggiato il novantacinquesimo compleanno di Philip Johnson in maniera quasi identica a quella del suo novantesimo. La rivista ha commissionato al fotografo di moda Timothy Greenfield-Sanders un ritratto del grande vecchio dell’architettura seduto al centro di un folto gruppo di seguaci nell’ atrio del Four Seasons, il ristorante ai piedi della Seagram Tower che Johnson ha avuto l’incarico di progettare come ricompensa per aver procurato la commissione dell’edificio a Mies van der Rohe.
Philip Johnson: il primo a capire che la copertina di «Time» vale molto di più di una monografia
È inconcepibile che nessun altro architetto abbia mai ricevuto un trattamento simile. Con l’unica importante eccezione della volta in cui accompagnò l’esercito tedesco nell’invasione della Polonia come corrispondente di una testata fascista americana, Johnson ha sempre avuto la capacità di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E la fotografia di Vanity Fair non è tanto un tributo al ruolo di Johnson nella storia dell’architettura quanto una celebrazione della sua importanza nelle rubriche mondane. Johnson è stato il primo architetto del Novecento a comprendere a fondo il potere della pubblicità e della notorietà. In un certo senso si tratta di un’abilità non troppo diversa da quella di Vitruvio, Palladio e tutti gli altri maestri i cui trattati possono essere considera ti come antesignani dell’arte dell’autopromozione in campo architettonico. Ma Johnson ha capito che la copertina di «Time» e la capacità di pronunciare al momento giusto una frase a effetto di fronte a un giornalista televisivo valevano molto di più per la costruzione di una carriera di una monografia destinata a essere letta solo da colleghi. E gli edifici che ha costruito sembrano anche loro delle frasi a effetto: attraggono l’attenzione del mondo per un nanosecondo e poi vengono dimenticati. Johnson è probabilmente il personaggio più vicino a Andy Warhol che l’architettura abbia mai pro dotto, in termini di personalità se non di qualità del lavoro. La fotografia di Vanity Fair mostra un bel gruppo di volti noti: Frank Gehry, accanto a Johnson insieme a Peter Eisenman, e ancora Arata Isozaki da Tokio, Rem Koolhaas da Rotterdam e Zaha Hadid da Londra, una presenza che sembra suggerire non solo un tributo a Johnson da parte di altri colleghi, ma anche un senso di accettazione della benedizione del grande vecchio, la cui protezione ha di certo aiutato molte persone a far carriera nel corso degli anni. Johnson è stato il più efficace propagandista dell’International Style prima e del Postmodernismo poi. Più di recente ha rivolto la sua attenzione al Decostruttivismo e persino ai deliri dell’architettura virtuale. Di sicuro non ha inventato nessuna di queste correnti. Tuttavia ha sempre cercato di renderle accessibili al vasto pubblico e, associando se stesso a ognuna delle nuove tendenze, è riuscito a costruirsi una visibilità del tutto sproporzionata al suo effettivo talento. Ha utilizzato la sua intricata e complessa rete di conoscenze nel mondo dell’architettura e degli sponsor per far sì che le nuove stelle del firmamento architettonico continuassero a ottenere incarichi importanti.
Il circo volante dei soliti trenta architetti
Forse mai prima d’ora così poche persone hanno progettato tante opere architettoniche «ad alta visibilità». A volte sembra che al mondo esistano solo 30 architetti, il circo volante dei perennemente affetti da jet lag, formato dai 20 che si prendono abbastanza sul serio da riconoscere un altro membro della casta quando lo incontrano nella sala d’attesa di prima classe all’aeroporto di Heathrow e da altri 10 che vanno avanti per forza di inerzia e, pur essendo stati smascherati dai colleghi, per il momento riescono ancora ad attrarre clienti in virtù delle loro glorie passate. Tutti insieme costituiscono il gruppo da cui vengono fuori sempre gli stessi nomi quando un’altra povera città illusa crede di poter battere il Guggenheim di Bilbao con una galleria d’arte che somiglia ai resti di un disastro ferroviario o a un disco volante o con un albergo che sembra un meteorite di venti piani. Li vedrete a New York e a Tokio, indossano i completi a tinta unita di Prada o Comme des Garçons A parte due eccezioni, sono tutti uomini. Li troverete sull’aereo per Guadalajara e Seattle, ad Amsterdam e, ovviamente, a Barcellona. Ora poi stanno tutti convergendo su Pechino, che in questo periodo è il più grande cantiere edile che il mondo abbia mai conosciuto. Incrociano di continuo il percorso dei colleghi, partecipano agli stessi concorsi riservati, sono sul palco per il conferimento del Pritzker Prize, e nelle giurie che scelgono i vincitori dei concorsi a cui non hanno partecipato in prima persona. A Pechino, Jacques e Rem stanno costruendolo stadio olimpico e la torre per la Tv cinese. Miuccia Prada li ha reclutati per aumentare il numero dei suoi negozi in Cina. Frank è in giro ovunque per il Guggenheim, anche se ha rifiutato l’incarico del New York Times, lasciando a Renzo la possibilità di occuparsene. Jean Nouvel sta cercando di sostenere il tentativo sempre più disperato del Guggenheim di vendere una concessione a Rio de Janeiro, visto che il genitore newyorkese, dopo investimenti edilizi degni della follia di re Ludovico di Baviera, è rimasto senza un quattrino.
Un business spartito tra carestia e sovrabbondanza
Perché siamo arrivati a questo punto? In parte perché l’architettura è riuscita come mai prima d’ora a lasciare il segno su un più vasto ambito culturale. Tre anni fa, la retrospettiva di Frank Gehry al Guggenheim di New York è stata un trionfo, con 370mila biglietti venduti. Un trionfo solo in parte macchiato dall’odioso imbarazzo di avere Enron tra gli sponsor principali. Nell’introduzione del catalogo della mostra, il Presidente della compagnia spiegava che Gehry e Enron condividono gli stessi obiettivi e valori, e in particolare proprio «la ricerca del momento della verità». Sei mesi più tardi il progetto di Gehry da un miliardo di dollari per il Guggenheim di New York veniva cancellato e la Enron veniva smascherata come la più grande truffa di tutti i tempi, almeno fino all’exploit della Parmalat. Nonostante la fine dell’effetto Guggenheim e i tagli ai budget, i licenziamenti del personale e i disperati salvataggi finanziari, alcuni sindaci ambiziosi pensano ancora che la costruzione di un edificio avrà il potere di farli notare. Il problema, data la totale assurdità di tanta parte dell’architettura contemporanea, è il seguente: come possono affermare che il disastro ferroviario, il meteorite o il disco volante diventeranno il segno distintivo della loro città e non si riveleranno invece l’ammasso di immondizia che in parte già sospettano sia? In realtà non possono saperlo. Per questo si affidano a quella lista di 30 nomi estratti dalle fila degli archi tetti che lo hanno già fatto prima. Quelli che hanno il permesso di essere assurdi. Dai l’incarico a uno di loro e stai certo che nessuno riderà di te. Proprio come comprare un vestito firmato Hugo Boss.
Tuttavia si tratta di un sistema che risente di un effetto boomerang: più si continuerà ad affidare tutti gli incarichi importanti a pochi nomi, meno possibilità di scelta ci sarà la prossima volta. Con la conseguenza che l’architettura si troverà trasformata in un business brutalmente spartito tra care stia e sovrabbondanza.
Alcuni architetti hanno troppo lavoro per potersi concentrare bene su ciascun incarico e distruggono quindi la pro pria reputazione diventando la parodia di se stessi, altri ne hanno così poco da considerare l’ampliamento di una cucina l’opera di un’intera vita, e fanno la fame.
Il sistema non sembra giovare poi molto agli apparenti beneficiari. Questa attenzione incontenibile ed esagerata ha un effetto preoccupante su alcuni degli elementi più suggestionabili del circo volante dei perenni affetti da jet lag. Cominciano a crederci davvero. Non riescono a evitare quella punta di sdegno bonario nei confronti di coloro che sono esclusi dalla fortunata cerchia, ma hanno anche l’ansia costante di essere messi in ombra e temono che l’appartenenza al gruppo sia solo temporanea. E orribile, crudele e snob. Ed è la naturale conseguenza della bizzarra richiesta di icone che ha travolto l’architettura e sedotto i suoi clienti negli angoli più improbabili del pianeta.
Un «progetto visionario di riferimento»
L’anno scorso, 1’agenzia per lo sviluppo dell’East of England, qualcosa di simile all’ente per la promozione della Calabria, ha lanciato ciò che definiva con ridicola magniloquenza un concorso internazionale per «il progetto visionario di uno o più edifici di riferimento». L’agenzia dichiarava di volere «un ‘icona che promuovesse il senso di identità della regione nel suo insieme» per sottolineare il fatto che l’East of England è una «regione di idee». L’unico elemento mancante in questa tiritera di luoghi comuni triti e ritriti era il riferimento en passant alle ambizioni di livello mondiale, espressione che al giorno d’oggi spunta fuori ovunque, sia in Calabria che in Alaska. Non è stato specificato alcun sito e l’agenzia non ha stanziato alcuna somma per il progetto, il che ispira certo poca fiducia, ma l’architetto Yasmin Shariff, che è anche membro del Consiglio di Amministrazione, sostiene che questo esempio di velleitarismo «è una fantastica opportunità per riunirci in quanto regione e decidere come presentare noi stessi al resto del mondo». Non è difficile indovinare che stanno pensando all’ennesimo teatro dell’opera dalla facciata coperta di scaglie di titanio, progettato da Frank Gehry come una massa informe, op pure a un ponte pedonale eccentrico ed esibizionista alla Santiago Calatrava.
La ricerca dell’icona
I concorsi di questo tipo si indicono ormai ovunque e conducono inevitabilmente al genere di architettura che ha la sua collocazione ideale sul logo di una carta intestata o nello spazio ristretto di un fermacarte di vetro con la Torre Eiffel sotto la neve, oppure sullo sfondo di una pubblicità di automobili. Sostiene di derivare da un’ispirazione, invece si riduce a una semplice ovvietà. La ricerca dell’icona è diventata il tema onnipresente dell’architettura con temporanea. Se essa deve emergere in mezzo a una serie infinita di sobborghi industriali fatiscenti, catapecchie rurali e aree di sviluppo, tutti soggiogati dal mito della celebrità e determinati a costruire l’icona che porterà il mondo ad aprirsi un varco fino alla loro porta, allora c’è bisogno di un’idea davvero straordinaria che catturi l’attenzione. Ma questa strada conduce a un’architettura dal rendi mento decrescente, in cui ogni nuovo edificio sensazionale deve tentare di eclissare il precedente; conduce a una sorta di iperinflazione, all’equivalente architettonico della svalutazione della moneta durante la Repubblica di Weimar. Oggi tutti vogliono un’icona. Vogliono un architetto che realizzi per loro quello che il Guggenheim di Gehry ha fatto per Bilbao e l’Opera House di Jorn Utzon per Sydney. Gehry, colui che ha innescato la spirale dell’inflazione con il Guggenheim di Bilbao, ha appena terminato la Walt Disney Hall a Los Angeles. Durante la cerimonia d’inaugurazione, la maggior parte degli interventi sottolineava l’importanza della nuova sala da concerti per l’immagine della città piuttosto che parlare della sua acustica. Non è certo questo il modo più semplice per perseguire l’architettura della discrezione e del tatto, né quella di qualità. Eppure sta diventando il metodo più diffuso di costruire opere architettoniche. L’effetto di questa ricerca dell’immagine danneggia allo stesso modo gli architetti e le città che conferiscono loro gli incarichi.
Santiago Calatrava, la prima vittima della mania di costruire icone
Calatrava, che rappresenta il lato oscuro e kitsch dell’inventiva gioiosa e libera di Gehry, continua ancora a definirsi un architetto. In realtà ha smesso di progettare edifici per con centrarsi sulla produzione di icone, e non è mai stato così occupato. Sta lavorando a una nuova stazione per il Ground Zero di New York, ha completato la Città della Scienza di Valencia e il nuovo auditorium di Tenerife. Inoltre ha di recente inaugurato un altro dei suoi caratteristici ponti, che va ad aggiungersi alla collezione che comprende quelli di Bilbao, Barcellona, Merida, Manchester e Venezia. Ovviamente, non ammette neppure a se stesso di non essere più un architetto. Continua in maniera commovente ad aggrapparsi all’alibi funzionale. Esaminate da vicino uno dei suoi progetti e anche se potrà apparirvi come un tentativo di gonfiare un’aragosta morta fino a farle assumere le dimensioni di un grattacielo, per di più costruito in cemento armato, troverete un’utile etichetta descrittiva che recita ad esempio «Teatro dell’opera». O nel caso della coda di balena che ha davvero costruito a Milwaukee l’etichetta annuncia con la stessa surreale sinteticità «Galleria d’arte». In realtà sarà difficile che un qualsiasi spazio espositivo trovi posto nell’ampliamento di Calatrava, che è lì solo per attrarre l’attenzione, per ricordare al mondo che la galleria esiste. L’edificio è stato realizzato con sette mesi di ritardo ed è costato così tanto che la Galleria ha dovuto licenziare il direttore e ridurre l’organico. Calatrava può essere considerato come il più grande beneficiano o la prima vittima di questa improvvisa mania di costruire icone. Ha iniziato la carriera progettando strutture realizzate in maniera artigianale e con grande economia di mezzi. Ma l’ingordigia dei suoi clienti lo ha condannato a ripetersi senza sosta, con effetti speciali sempre più roboanti per distrarci dall’assenza di ispirazione creativa. Calatrava ha appena inaugurato un cosiddetto auditorium a Santa Cruz, cittadina che conta circa 250mila abitanti nell’isola di Tenerife. Con quest’opera il suo alibi ha iniziato a vacillare. Ufficialmente le bianche conchiglie di cemento sono descritte come onde che si infrangono sulla riva. I meno benevoli le hanno viste come la riproduzione gigantesca di un velo da suora o perfino come un furto dal l’Opera House della lontana Sydney. In ogni caso si tratta del classico progetto «icona». Un edificio culturale, realizzato con il sostanzioso contributo economico di Bruxelles, che è stato costruito con l’espresso proposito di far apparire sulle pagine delle riviste patinate, di quelle che si trovano su gli aerei, una città fino a quel momento ignorata.
A Valencia, il progetto di Calatrava si chiama Museo della Scienza, anche se è assolutamente impossibile esibire alcunché al suo interno e ha l’aspetto della carcassa di un animale marino morto da un pezzo. Calatrava è un caso unico, celebre per aver studiato sia architettura che ingegneria; una combinazione che gli ha permesso di creare intorno alle sue opere la suggestione di un intrinseco senso logico, fornendo un alibi per quello che altrimenti potrebbe essere interpretato come palese esibizionismo. Calatrava ha intorno a sé quel soffio di visione ultraterrena che aleggia intorno a coloro che dicono di scorgere un ordine nascosto nei fili d’erba, nei fiocchi di neve e nei cristalli di rocca. Da ciò ha creato una specie di Gotico geneticamente modificato che oggi è il tema cardine delle sue opere. O forse è un Gaudi spremuto come dentifricio da un tubetto. La sua virtuosistica qualità visiva costituisce un diversivo sufficiente a impedire ai suoi me cenati di domandargli per quale motivo l’ampliamento della Galleria d’arte di Milwaukee debba somigliare a una coda di balena e la struttura dell’auditorium di Valencia a un’aragosta gigante o di giustificarli in termini di funzionalità.
Mai abbastanza spettacolari
All’estremità opposta della gamma si trova il gruppo di archi tetti che comprende Alvaro Siza, Rafael Moneo e David Chipperfield, ideatore di edifici semplici ma sensuali, come il restaurato Neues Museum di Berlino, avvilito di fronte alle continue richieste di progetti di icone, che a suo parere allontanano l’architetto dal suo vero ruolo, quello di realizzare costruzioni funzionali. Un tempo in Inghilterra se osavi fare qualcosa di appena un po’ moderno, eri considerato un sovversivo. Ora sei nei guai se vuoi costruire edifici sobri, perché al giorno d’oggi non si è mai spettacolari a sufficienza. Per le icone vi è uno spazio appropriato, ma è chiaro che la tendenza consumistica ha preso il sopravvento anche in architettura. Secondo Chipperfield l’idea tradizionale secondo cui l’architettura deve basarsi sulla comprensione delle esigenze del cliente e tendere a soddisfarle con semplice eleganza è valida tanto oggi quanto lo era negli anni in cui Mies van der Rohe inventò il grattacielo di vetro invece di creare semplicemente un’icona memorabile. Ma quello di Bilbao è un museo, un luogo in cui ammirare quadri, con un posto per appendere i cappotti e uno per prendere un caffè? Chi lo sa? A un certo livello, però, Bilbao è l’edificio più riuscito del secolo. La forma non deriva più dalla funzione, ma solo dall’immagine. E tra le tipologie di edifici che si sono piegate a questa tendenza, quella del museo è la più vulnerabile, la più facile da manipolare. Gli architetti possono giocarci, ma i problemi veri nascono quando si prova a fare io stesso con le biblioteche pubbliche o con l’edilizia abitativa. Più i clienti continueranno a chiedere icone e meno le nuove generazioni di architetti si sentiranno disposte a impegnarsi. Gli edifici futili, vistosi ed esibizionisti subiscono la legge dei rendimenti decrescenti. La risposta intelligente da parte di Foreign Office Architects è di progettare strutture, come il terminal per i traghetti a Yokoama, che non possano essere ridotte a un semplice logo. E il più chiacchierato museo americano, inaugurato nel 2003, nasce da una vecchia fabbrica di scatole di cartone sui fiume Hudson, ed è del tutto alieno da ogni consapevole monumentalismo. Forse, al pari del Liberty che fiori solo per un breve momento al volgere dei secolo scorso, anche il gusto per l’icona ha conosciuto questa larga diffusione solo perché è sul punto di scomparire.