Bobo ha fatto il miracolo. L’altro giorno l’impegnatissimo ministro Maroni, resocontando la sua visita a Milano, tra militari agli angoli delle strade, poliziotti di quartiere, ronde padane e armamentari vari, è riuscito a ricordarsi del Leoncavallo, collocandolo, insieme con la moschea di viale Jenner, nel capitolo «emergenza legalità», inaugurando così l’epopea gloriosa degli sgomberi e «dell’aria che cambia».
Ci saremmo aspettati di tutto, persino Borghezio commissario «ai musulmani, quelli che pregano con il culo in aria», per citare alla lettera il volitivo e ingombrante eurodeputato. Non ci saremmo mai aspettati invece il Leoncavallo: per il centro sociale di via Watteau non sembrava proprio il caso di riscomodare per l’ennesima volta la parola «sgombero» e tanto meno la parola «legalità». Perchè il vecchio Leonka era da tempo giunto alla maturità dell’età adulta e dei compromessi, giusto per la tranquillità di tutti e per un sereno avvenire. Invece, girando al contrario il film della vita, in virtù del ministro Maroni, si torna a recitare di «sgombero» e naturalmente, come è giusto, in contrapposizione, di «presidio». Perchè questa mattina, alle ore sei (poche ore dopo insomma la fine della partita della nazionale proiettata in diretta, come le altre partite degli Europei, accompagnate tutte dalla degustazione dei vini dei coltivatori del consorzio, naturalmente alternativo, della Terra Trema), si darà il via al “presidio contro lo sgombero”, per fare, come spiega Daniele Farina, tra i primi del Leoncavallo ed ex parlamentare di Rifondazione, quello che si fa in questi casi: «Ci opporremo con i nostri corpi». Il Leoncavallo ha, per questo, chiamato i milanesi alla «ribellione» e francamente non sappiamo quanti vogliano rispondere, tornando dalla gita al mare o in montagna. La città, nella sua calura, è un deserto di sentimenti: a questo è ridotta e rimotivarla all’impegno, alla solidarietà, alla politica è impresa titanica.
Secondo Daniele Farina, che ha tenuto il conto, sarebbe il quindicesimo presidio contro il quindicesimo sfratto. Una vita. In questo caso non vi sarebbe neppure contrasto tra i leoncavallini e i proprietari dell’area (la famiglia dei Cabassi, i sabiunatt, quelli che, per capirci possiedono la maggior parte delle aree sulle quali sorgeranno grattacieli e capannoni di Expo 2015), ma inadempiente sarebbe il comune che dovrebbe traslare i diritti dei Cabassi dall’area di via Watteau a una qualsiasi altra area di loro proprietà. Una permuta, uno scambio pacifico, insomma. Va a finire che anche il Leoncavallo si mette nelle mani degli avvocati: «Stiamo studiando un esposto da presentare alla procura della Repubblica». Contro la signora Letizia Moratti. Insomma, altro che barricate. Piuttosto aule di giustizia per cause civili. La normalizzazione continua, nella storica anormalità del Leoncavallo, che ormai è patrimonio milanese, degno dell’Ambrogino d’oro, se il sindaco avesse un filo di sensibilità e di lungimiranza. Perchè il Leoncavallo la sua fatica di organizzatore e mediatore culturale l’ha sempre sopportata con coraggio, perseveranza, intelligenza. E con moderazione. Rivendicando la propria anomalia, la propria voglia di cultura in autosufficienza.
Reggerà un’altra volta all’urto il Leoncavallo? Probabilmente sì, continuando a recitare la sua parte, come da trent’anni, dopo la prima recita, 18 ottobre 1975. Bisognerebbe tornare a quegli anni, per immaginare ragazzi che saltano i muri di un’ex officina, in via Leoncavallo, dietro il deposito dei tram, al Casoretto. In quelle strade, trent’anni fa, si consumò un delitto, ancora senza colpevoli: vennero assassinati due giovani, Fausto Tinelli e Iaio Iannucci. Due giorni prima era stato rapito Aldo Moro. Il Leoncavallo divenne Centro sociale Fausto e Iaio. Più di prima divenne il luogo di una alternativa, faticosa e pericolosa, alla politica delle istituzioni. Di sinistra e d’ultra sinistra, autonomi o riformatori di un certo stampo (il primo nucleo del Leo si educò alle future imprese in un oratorio allestendo una scuola popolare), preglobalisti, uniti nella vocazione pedagogica, allestendo gruppi di intervento sull’istruzione, contro la repressione, sul carcere, sulla parità, sul lavoro, sull’ambiente, sulla Palestina, sull’apartheid, su tutto. Più la mensa e la birra. Più i murales, che in Italia nascevano lì, su quei muri scrostati, tenuti in piedi dalla generosa manovalanza dei militanti. Dentro le mura del Leoncavallo si moltiplicava la fantasia, che si esercitava in forme che si volevano socialmente utili: contro lo spaccio, ad esempio, o per gli sfrattati.
A un certo punto il Leoncavallo fu chiamato ad esercitare la sua fantasia anche «contro il terrorismo», perché nell’ombra del Casoretto, nella disposizione di chi non voleva sbattere porte in faccia a nessuno, i terroristi si fecero vivi. Si cadde nell’ambiguità dei «compagni che sbagliano». Ci fu anche qualche arresto da quelle parti e fu un colpo, che diede fiato alle trombe degli oppositori, al grido rituale di battaglia: «sgomberare il Leoncavallo». Toccherà alla giunta guidata da un socialista, Paolo Pillitteri, cognato di Bettino Craxi, sgomberare il Leoncavallo: nel 1989, il giorno dopo ferragosto, nell’anno del muro di Berlino, cadrà anche il Leoncavallo. Risultato: ventisei arresti e cinquantacinque denunce. Risultato a distanza: la rioccupazione del Leoncavallo. Poi arrivò Formentini sindaco, «Sono dei randagi». Arrivò Bossi, «Se non ci pensa il governo manderò un’ondata di uomini decisi fino al secondo piano». Il Leoncavallo trovò un’altra sede, alla Baia del re, di fronte all’autoparco della mafia. Un passaggio durato centottanta giorni. Nel settembre 1994, sperimentò un’altro sgombero e una occupazione, per così dire, consensuale. Questa volta i leoncavallini si ritrovarono in via Watteau, in quella terra dismessa, terra di nessuno, ma di proprietà del signor Cabassi, che li accolse in attesa della permuta. Quattordici anni fa e in attesa di un altro tentato colpo contro una minoranza che ha la colpa di rivendicare un pezzo di autonomia culturale.