La Repubblica ed. Milano
Una città costruita sui veleni
di Davide Carlucci
Chi ha chiuso un occhio sui veleni di Santa Giulia? È il grande interrogativo all’indomani del sequestro dell’avveniristico quartiere nella zona sud est di Milano, ai confini con Rogoredo. La Guardia di finanza - insieme all’Asl e al Corpo forestale dello Stato - ha posto i sigilli dopo che l’Arpa ha consegnato una relazione-shock dalla quale è emerso l’altissimo livello di contaminazione del terreno e delle falde acquifere. Le concentrazioni di sostanze cancerogene come il tricloroetilene sono risultate fino a cento volte superiori ai limiti di legge - 116,50 milligrammi per litro a valle contro l’1,5 consentito - nella prima falda. Un po’ più leggere le concentrazioni nella seconda falda, a venticinque metri di profondità. Ma non meno preoccupanti: a quel deposito sotterraneo attingono anche le acque pubbliche. «Per ora non ci sono pericoli per la popolazione - avverte comunque Giuseppe Sgorbati, direttore dell’Arpa - ma potrebbero essercene in futuro se non si interverrà con una vera bonifica».
Ma come mai i tecnici non se ne sono accorti prima? È la domanda che pone, tra le righe, il giudice Fabrizio D’Arcangelo, firmatario del provvedimento di sequestro, quando parla delle «numerose anomalie, sia sul piano procedimentale-amministrativo, sia su quello tecnico della esecuzione della bonifica evidenziate dall’Arpa». L’Agenzia regionale protezione ambiente - che in passato, all’epoca dell’intervento, avrebbe dovuto vigilare sulla correttezza dello smaltimento dei rifiuti degli impianti Montedison e delle acciaierie Redaelli - ha fornito la sua ricostruzione. «Secondo l’Arpa - scrive il gip - all’atto della formalizzazione dell’accordo di programma e della convenzione del 2004/2005, atteso che il progetto coinvolge tutta l’area ex Montedison e non solo le aree già bonificate e collaudate per uso industriale, e posto che nel progetto parte di queste aree diventavano ad uso residenziale, sarebbe stato necessario sottoporre l’area a un’indagine preliminare». Lo imponeva lo stesso regolamento d’igiene del Comune per un cambio di destinazione d’uso di un’area considerata insalubre.
Ma nel caso di Santa Giulia, invece, è stato previsto un piano di gestione delle terre e un piano di scavi sotto le fondamenta dei palazzi, che non prevedeva l’analisi delle contaminazioni sotto il parco trapezio e nella falda. «Nella normativa vigente - scrive il gip - il piano scavi può essere eseguito solo su terreni non inquinati o già bonificati e certificati. In questo caso l’area di conduzione del piano scavi è diversa rispetto a quella nella quale era stata condotta la bonifica tra il 1993 e il 1996». L’errore, insomma, secondo l’Arpa è stato soprattutto del Comune e, in seconda analisi, della Provincia. Restano così le parole di Cesarina Ferruzzi che, interrogata, ha spiegato che«effettivamente l’area era molto inquinata e per altro molto vicino alla città" aveva aggiunto: "La presenza di materiali inquinanti di diversa tipologia determina un inquinamento molto più grave perchè c’è una miscela di vari principi inquinanti, una sorta di bomba biologica". Quanto ai costi la manager del gruppo aveva affermato "praticamente il costo della bonifica sarebbe stato doppio". Anche Grossi sul punto aveva dichiarato: "se si fosse fatta una bonifica si sarebbero dovuti spendere 400-500 milioni di euro e forse non sarebbero nemmeno bastati in ragione delle dimensioni dell’area".
Grossi: falda inquinata, si sapeva ma ripulirla sarebbe costato troppo
Scoppia il caso Montecity. L’area dell’ex Montedison, quella dove doveva sorgere la città "ideale" di Zunino e dove già sono abitate palazzine e c’è il centro Sky, è stata posta sotto sequestro. Nel terreno infatti sono presenti inquinanti pericolosi, la falda avvelenata da sostanze nocive all’ambiente e alla salute, anche cancerogene. Tutto per una mancata bonifica. In più, l’Arpa lancia un’accusa al Comune: «Avrebbe dovuto controllare meglio prima di dare il via libera al progetto». L’inchiesta è coordinata dai pm Laura Pedio e Gaetano Ruta.
Nell’interrogatorio del 18 dicembre 2009 il re delle bonifiche dà una spiegazione del suo operato: «Per rendere gli investimenti convenienti e favorire il recupero delle aree ex industriali è necessario che ci sia un ritorno economico finanziario...». Senza alcun commento, il giudice Fabrizio D’Arcangelo riporta questo passaggio nel decreto con cui dispone il sequestro dell’area di Santa Giulia. Per Grossi è l’ultima tegola. Ora i pm Laura Pedio e Gaetano Ruta non gli contestano più soltanto la frode fiscale, ma l’avvelenamento delle acque, per il quale è prevista una pena fino a 15 anni.
In libertà da aprile dopo sei mesi di custodia cautelare, il cuore ancora sotto controllo dopo l’intervento chirurgico di un anno fa, Grossi continua a scegliere il silenzio. «La vicenda giudiziaria e le condizioni di salute fanno sì che lavori molto meno di prima», dicono dal suo entourage. Ma per Edoardo Bai, esperto di bonifiche per Legambiente, non è così: «Le aziende collegate a lui hanno continuato a fare affari nel campo delle bonifiche, come se nulla fosse accaduto». Contando come sempre, fa capire Bai, sulla benevolenza del governatore Formigoni. L’esponente ambientalista si riferisce alla vicenda della Sisas di Pioltello, una delle tante bonifiche affidate a Grossi (se ne potrebbero citare tante altre, dall’ex zuccherificio di Casei Gerola, in provincia di Pavia, al sito inquinato dalle melme acide di Cerro al Lambro, nel sud Milano). La Sisas è una Santa Giulia al cubo: la bonifica dei terreni, contaminati in modo ancora più pesante, non è mai stata fatta, e i fondi stanziati sono stati sperperati dai vecchi proprietari, i Falciola, il cui patròn, Luciano, è stato condannato giovedì a cinque anni e sei mesi di carcere. La corte di Giustizia europea per questo commina all’Italia una multa da dieci milioni di euro e la Regione, per evitarla, affida a Grossi l’incarico di bonificare l’area. Travolto dalle inchieste, l’imprenditore deve ritirarsi dall’affare senza aver completato il recupero. Nonostante questo la Regione, fa notare Legambiente, sta per preparare una delibera con la quale "liquida" a Grossi 20 milioni di euro per i lavori già effettuati.
Per diversi rivoli i destini di Grossi, inoltre, s’incrociano con quelli dei fedelissimi di Formigoni. Rosanna Gariboldi, moglie di Giancarlo Abelli - l’uomo più vicino al governatore del Pdl - ha patteggiato due anni, con pena sospesa, per aver riciclato proprio una parte dei fondi dell’evasione realizzata grazie alla mancata bonifica di Santa Giulia. Ieri, con il sequestro di Montecity, Grossi trascina con sé nei suoi guai giudiziari anche l’ingegner Claudio Tedesi, uno dei professionisti a cui più ha fatto ricorso. Tedesi, che ha gestito interventi importanti in tutt’Italia, dalla Fibronit di Bari a Bagnoli, direttore generale delle Asm di Vigevano e di Pavia, è considerato vicino ad Abelli. «Sono stato democristiano ma di Abelli sono amico solo sul piano personale - dice lui - ora non ho tessere di alcun tipo. L’area di Santa Giulia? Risultava già bonificata già quando sono arrivato io. Non rientrava nei miei compiti».
la Repubblica ed. Milano
La paura di mille famiglie "È a rischio anche l’asilo?"
di Massimo Pisa
Guardano Montecity dal fondo del Parco Trapezio, giardinetti dalla sghemba forma dove scivoli, altalene e giostre sono ancora in gabbia e fanno compagnia a tubi a vista e mucchietti di terriccio non ancora lavorato. «Lo aprono a settembre, l’asilo? Resta chiuso? Hanno messo i sigilli anche lì, che non lo vediamo?». Gli interrogativi sono di due nonne che passeggiano a metà pomeriggio all’ombra dei palazzoni di via Cassinari, proprio sotto il terrapieno che copre i box interrati e nasconde parzialmente alla vista l’asilo. Che qui, a Santa Giulia, dove il tasso di carrozzine e bimbi che sfrecciano con gelato in mano è notevole, aspettavano tutti con trepidazione, e ora chissà.
La notizia dei sigilli della Finanza ai cantieri sorprende e manda di traverso la pausa postprandiale a parecchi residenti, che la radio non l’avevano ascoltata e nemmeno la tv, su Internet non c’erano andati e ora sgranano gli occhi. Come Bernadette, ungherese, 36 anni, pancione con sorellina in arrivo («Sono al settimo mese») per il piccolo Davide che va in giro con la bici a rotelle. «E certo che sono preoccupata - spiega - anche perché a questo asilo dovevo iscrivere mio figlio. Stiamo qui da un anno e del terreno inquinato non sapevo nulla: sul contratto di acquisto della casa avevano specificato la bonifica. Come si vive qui? Bene, nonostante la polvere dei lavori, i recinti ai giardini e qualche box scassinato. Tranquilli, almeno fino ad ora». Jacopo e Ylenia, 41 e 30, apprendono mentre scaricano la spesa dall’auto: «Siamo qui da gennaio, in affitto. I servizi ci sono e si sta benissimo, con qualche piccolo furto come in tutti i condomini nuovi. Stavamo decidendo se comprare o meno. Beh, ora vedremo... «. La sicurezza dei condomini, anche in un giorno come questo, è l’unico tema che vedi fisicamente trattato in pubblico: sui portoni si invita a denunciare i furti («Coloro i quali hanno subito il danno sono cortesemente invitati a sporgere regolare denuncia alla P. s. «), si annuncia l’ingaggio di una società di vigilanza privata ma non c’è traccia di cromo esavalente o di falda avvelenata, non ora.
Come se il problema fosse alieno, distante da questi recinti e dai terrazzoni trompe l’oeil. Vanessa Yoshimura, nippobrasiliana di 29 anni, scarrozza i due pupi di 4 anni e 2 mesi ed è un manifesto di ottimismo. «Ho saputo da una mail di mio marito: "Merda, mettono i sigilli". Ma non sono spaventata, le verifiche sul terreno della scuola le faranno. Non possiamo disperarci, no?». Bellangela Cappelluti («Nome di mia nonna, era di Molfetta, nome unico») vanta le virtù dei suoi due balconi che rinfrescano i suoi 62 anni e quelli di suo marito. «Senta, qui si sta bene. È tranquillo, non c’è traffico, non c’è l’inferno del Corvetto dove abitavo prima, solo il fischio dei treni. Certo, queste notizie non fanno piacere. Però dicono che l’acqua dei nostri rubinetti non c’entri. E io bevo solo minerale. Frizzante». Franco Fumagalli, chirurgo 53enne, a passeggio con figlia e cagnetta, racconta il suo anno e mezzo a Santa Giulia quasi rivendicandolo: «Ogni giorno è andato un po’ meglio, continuano ad aprire negozi, ci sono i mezzi, il campetto da basket qui dietro. Non hanno fatto le bonifiche? È la vecchia storia: questo è un problema di tutta la Lombardia, non solo del quartiere».
A tremare, soprattutto, sono i polsi dei nonni. Di Manrico Hintereger, 67 anni asciuttissimi, che abita in via San Venerio, «sono le case delle Acli, qui dietro, ma i miei nipoti vengono a giocare in queste strade, respirano quest’aria. E chissà cosa trasportavano, quei camion che andavano e venivano dalla Germania, quando il cantiere era aperto». Di Angelo Misani, capogruppo pd in consiglio di zona, figlio e nipoti in appartamento con vista boulevard: «Preoccupatissimi, sì. Non sappiamo nemmeno cosa faranno di questi cantieri. E dire che era venuto l’assessore Masseroli, pochi mesi fa, a rassicurare tutti».
Gli arrabbiati (per i veleni) e gli scettici (sui veleni). Chi teme catastrofi e chi si fa bastare le rassicurazioni dell’Arpa, anche sul web, sul forum (santagiulia. forumup. it) che raccoglie le voci del quartiere. Ci sono due anime, e pensieri misti, questa notte a Montecity.
Corriere della Sera
Quartiere sequestrato per inquinamento
di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella
«Veleni nella falda acquifera, ci sono rischi per la salute». Sequestrato dai giudici di Milano il quartiere Santa Giulia. L’accusa indica una mancata bonifica dell’area Montecity-Rogoredo. Nell’acqua ci sarebbero sostanze e rifiuti tossici. I terreni furono comprati nel 1998 dal gruppo Risanamento di Zunino e riconvertiti in un progetto urbanistico da 1,6 miliardi firmato dall’architetto Norman Foster.
«Se si fosse fatta una bonifica dell’area Montecity-Rogoredo si sarebbero dovuti spendere 400-500 milioni di euro», e invece «per rendere gli investimenti convenienti — testimonia ai pm l’imprenditore delle bonifiche ambientali Giuseppe Grossi — è necessario ci sia un ritorno economico e finanziario». Così, a dispetto dei lavori commissionati dall’immobiliarista Luigi Zunino a società di Grossi e da queste subappaltati alla Edil Bianchi srl e alla Lucchini Artoni srl, nessuna efficace bonifica è stata fatta in questo milione e 200mila metri quadrati a sud-est di Milano dismessi nel 1985 dalla chimica Montedison e dalla siderurgia Redaelli, comprati nel 1998 dal gruppo Risanamento di Zunino, e dal 2003 riconvertiti in un progetto urbanistico da 1,6 miliardi con la firma dell’architetto Norman Foster. E nessuno tra Comune-Provincia-Regione, in un «procedimento amministrativo» costellato da «numerose anomalie», ha controllato l’attuazione della bonifica da ddt e pesticidi.
Risultato: nelle acque della «falda sospesa» (tra i 4 e gli 8 metri di profondità) e nella «prima falda» (da 10 a 35 metri) il giudice Fabrizio D’Arcangelo rileva, sulla scorta dei dati dell’Agenzia regionale per l’ambiente (Arpa) e del Nucleo ambiente dei vigili urbani, «concentrazioni notevolmente superiori ai limiti di legge» (oltre 20 volte nella prima falda, 100 volte nella falda sospesa) di «sostanze tutte pericolose per l’uomo» in quanto «cancerogene (tricloroetilene, tetracloroetilene, tricloroetano, manganese, cadmio, cromo esavalente), pericolose per l’ambiente (cloruro di vinile, arsenico), tali da mettere a rischio la fertilità e provocare danno ai bambini non ancora nati (cadmio e cromo esavalente)».
Ieri Arpa eMetropolitana milanese (che gestisce l’acquedotto) in comunicati ufficiali hanno assicurato che «l’inquinamento al momento non costituisce un elemento di rischio sanitario per i residenti» e «l'acqua nelle loro abitazioni è indenne da ogni contaminazione». Ma il giudice D’Arcangelo, per le ipotesi di reato di «avvelenamento delle acque» e «gestione di rifiuti non autorizzata», ieri ha ordinato alla Gdf di Milano il sequestro preventivo di tutta l’area non edificata nel quartiere proprio sulla base delle relazioni sollecitate all’Arpa dai pm Pedio e Ruta.
«La prima falda oggetto di indagine — ha risposto l’Arpa ai pm il 9 giugno — viene captata e utilizzata a scopo idropotabile dall’acquedotto del Comune anche in aree limitrofe a quelle in questione, a riprova del suo ampio utilizzo anche attuale». In particolare «a ovest è presente la centrale Martini dell’acquedotto, i cui pozzi presentano in alcuni casi filtri che partono da 30 metri di profondità senza strati argillosi soprastanti, che quindi captano inequivocabilmente la prima falda oggetto d’indagine»; mentre «idrogeolo-gicamente amonte del sito ci sono le opere di captazione facenti capo alle centrali Ovidio e Linate dell’acquedotto, che riforniscono di acqua potabile il nuovo quartiere di Santa Giulia».
Il sequestro ha tre tipi di conseguenze: giudiziarie, economiche e politiche. Le prime risiedono nella gravità dell’ipotesi (punita in Corte d’Assise con 15 an ni) notificata ieri agli indagati Zunino, Grossi, al direttore dei lavori Claudio Tedesi (oggi a capo dell'Asm di Pavia), al responsabile di cantiere Ezio Streri, agli amministratori di "Santa Giulia spa" Silvio Bernabè e Davide Albertini Petrone, al rappresentante della "Lucchini Artoni" (Vincenzo Bianchi) e ai capo cantiere e rappresentante della "Edil Bianchi" (Alessandro Viol e Bruno Marini).Pesante anche il contraccolpo economico, non tanto perché Risanamento ha perso in Borsa l’8%, quanto perché le banche esposte con Risanamento per circa il 60% dei suoi 3,2 miliardi di debiti (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Bpm, Banco Popolare), e che nel novembre 2009 avevano salvato il gruppo di Zunino dal fallimento chiesto in luglio dalla Procura al tribunale fallimentare, ora devono svalutare un’area stimata un anno fa (forse già generosamente) un miliardo, e preventivare oneri aggiuntivi.
Qui si incrocia il riverbero politico: il giudice rimarca non solo che «sono venuti a mancare i principali strumenti di controllo» da parte degli enti pubblici (come sui «500 mila metri cubi di scavi in più rispetto alla convenzione con il Comune»), ma anche che «non sono state versate le fidejussioni previste dalla normativa a tutela degli enti pubblici», cioè le garanzie finanziarie che avrebbero dovuto essere prestate alla Regione in misura non inferiore al 20% del costo stimato della bonifica. E così al danno, e al pericolo per la salute, si aggiunge ora la beffa: «Alla luce della riscontrata contaminazione della falda — constata infatti il giudice —, gli enti pubblici non hanno ad oggi risorse finanziarie per intervenire in sostituzione nel caso di mancato intervento del soggetto interessato».