Si discute tanto, e tanto giustamente, di quanto sia diversa la prospettiva di affermazione di un diritto, rispetto al puro risarcimento monetario di chi ne è stato privato. La cosa si applica naturalmente al posto di lavoro, e anche agli spazi urbani soprattutto quando un proprietario deve rinunciare - in tutto o in parte - alla proprietà per qualche motivo di ordine superiore, o sedicente tale. E quando questo “proprietario” è collettivo? Chi o cosa lo tutela? A quanto pare proprio nulla: pare che valga l’esatto contrario dell’esproprio per pubblica utilità, e qui l’interesse “alto” è quello dell’operatore economico, quello da liquidare con somma da stabilirsi il collettivo. Bene. Anzi mica tanto bene. A Milano c’è un detto, ciapa e porta a ca’, dal senso variabile a seconda dei casi, e quello della Galleria Vittorio Emanuele è proprio un caso studio, il caso studio. Qualcuno vuole “rilanciarla”, la Galleria, con un meccanismo del genere.
I cittadini, e anche tanti altri, da generazioni la chiamano “salotto della città”, perché naturalmente quello spazio già a metà XIX secolo era stato concepito per essere molto più di un gruppo di vie coperte. Il tempo e l’immaginario collettivo hanno fatto il resto. Oggi nella Milano mediamente avara di spazio pubblico, dove piazze vere e proprie all’italiana latitano, i modelli moderni sono al massimo i soliti risicati fra un nodo di traffico e un ritaglio di area pedonale (quando va bene), la Galleria spicca per ruolo diretto e indiretto. Diretto perché appunto funge da salotto, indiretto perché in quel salotto convergono altre stanze e corridoi dell’appartamento collettivo, che altrimenti non avrebbero gran senso da soli. Se si scorre certa stampa internazionale però si scopre che dell’idea di salotto non frega niente a nessuno, quello è, dal concetto originario del progettista attraverso i decenni, un paradigmatico modello ideale di shopping mall. E qui tocca mettersi a pesare le parole, manco si fosse avvocati o giuristi.
Shopping vuol dire, terra terra, far la spesa, e il mall in sé e per sé altro non è che un percorso, un passeggio, magari pure con grande forza simbolica di identità nazionale, vedi quello di Washington, o quello originario di Londra, dove è pure nato in termine “mall”, da una cattiva pronuncia della parola italiana “maglio”. Ma le due parole unite necessariamente evocano il segregato scatolone suburbano. Che c’entra con la Galleria? Mica siamo in mezzo a uno svincolo sotto le insegne un po’ pacchiane! Invece c’entra parecchio, perché il concetto di shopping mall è una formula chimica che non ha affatto bisogno dei prefabbricati o di qualche ettaro di parcheggi per funzionare. Basta un altro ingrediente, molto meno vistoso, e si chiama correntemente management. Ovvero come quello spazio viene gestito, e prima ancora quali poteri sono conferiti a chi lo gestisce. A Milano questi poteri potrebbero cambiare bruscamente, e sorprendentemente. Oppure no: dipende.
Il cambiamento era nell’aria da parecchio. Con la giunta precedente di centrodestra si era arrivati anche, piuttosto spudoratamente, a un bel progetto di sostanziale scatolonizzazione del tutto. Ovvero chiudere materialmente, con la scusa dell’aria condizionata, tutti gli ingressi, e “rilanciare” così gli esercizi commerciali. Lì la differenza coi grandi contenitori suburbani si assottigliava giusto alla mancanza dello svincolo, ma forse col tunnel Linate-Expo l’impagabile duo Moratti-Masseroli pensava di risolvere pure quel problema! Adesso salta fuori che una delle punte di diamante del jet-set fighettone, nientepopodimeno che Versace, ha presentato al comune un suo piano di rilancio e riorganizzazione di tutto quel bendiddio commerciale. Giunta Pisapia-Tabacci un po’ meno spudoratamente incline a inclinarsi in certe direzioni, oggi, ma il dubbio è lecito: che si vuol fare? Che tipo di management dovrebbe imperare dentro le prestigiose arcate del Mengoni, ed estendere i suoi effetti anche fuori? That’s the question.
Si discute proprio in questi giorni ad esempio dell’opportunità o meno della presenza di esercizi fast food, e comunque di attività relativamente “povere” rispetto al potenziale prestigio e ritorno economico di quegli spazi. Spesso si parla di superfici lasciate al degrado, o occupate da enti e associazioni che magari meglio starebbero in altri posti, lasciando campo libero a chi può pagare di più. La collettività ci guadagna, almeno se facciamo i conti solo col borsellino. Ma se facciamo i conti in un altro modo? Viene in mente il caso recentissimo di Zuccotti Park, che ha messo il marchio su una intera stagione di conflitto sociale e culturale. Quella piazza era qualcosa di simile alla Galleria, dal punto di vista del management, anche se il percorso è del tutto opposto. Si tratta del genere di spazi, privati ma aperti alla frequentazione pubblica, faticosamente introdotti nelle norme urbanistiche di New York (e di altre città americane) esattamente per superare le gravi lacune di spazio collettivo determinate da un’urbanistica storicamente disegnata dalle forze del mercato. Detto molto in breve, in cambio di un incremento di cubature il costruttore si impegna a lasciare e mantenere un arretramento dell’edificio rispetto al filo stradale, o altro tipo di organizzazione spaziale, da adibire a luogo di incontro, sosta, eventualmente attrezzato con verde, posti a sedere ecc. È il tipo di luoghi dove l’umanità metropolitana, a volte con risultati sorprendenti, prova in qualche modo a recuperare ciò che la città-macchina del Novecento pare avergli provvisoriamente strappato. Ne ha costruito una vera e propria sinfonia William “Holly” Whyte nel suo commovente documentario The social life of small urban places. (1980). Ma privati erano e privati restano: appunto i meccanismi dello sgombero di Zuccotti Park ci hanno raccontato fin nei particolari come si esercita il management spaziale nei casi di conflitto fra uso collettivo e proprietà privata.
Lo shopping mall è da sempre terreno di scontro per l’equilibrio fra utenza pubblica e spazio privato, al punto che esiste una ricca letteratura sociologica e giuridica a proposito. E in tempi più recenti l’attenzione si è concentrata anche sui processi di cosiddetta “mallizzazione della città”, ovvero quando soprattutto nei progetti di riqualificazione urbana vie e piazze smettono di essere tali, trasformandosi nel corridoio di un centro commerciale, che per esempio può chiudere la domenica, o di notte, e dove per esempio un vigilante privato ha una specie di potere di polizia discrezionale conferito da un management privato. Esistono però molte sfumature possibili, per questo oscillare fra il modello della via o piazza pubblica e il cortile privato aperto discrezionalmente al pubblico tipo Zuccotti Park. E vengono stabilite in sostanza dalla convenzione. Pare che nel caso di Milano (almeno così si capisce dalle prime notizie sui giornali) non venga messa in discussione la proprietà pubblica della Galleria. I potenti mezzi della multinazionale Versace riverseranno le proprie aspettative di valorizzazione sui modi d’uso, sulla gestione dello spazio. E qui potrebbe cascare l’asino, o no.
I casi sono due: reintegro obbligatorio dei cittadini in caso di espulsione, oppure monetizzazione del licenziamento e semplice indennizzo, da calcolarsi a cura dell’Assessore al Bilancio. Forse qui si potrebbe capire meglio l’idea di città della nuova amministrazione.
(di seguito, la notizia)
Rossella Verga, Grandi manovre sul Salotto, Corriere della Sera Milano, 6 aprile 2012
Cogestione pubblico-privato, cessione del 49 per cento delle quote, conferimento dell'immobile a un fondo. I contorni dell'operazione in fase di approfondimento a Palazzo Marino non sono ancora chiari, ma quel che è certo è che il Comune ha ricevuto una proposta di valorizzazione della Galleria dalla Fondazione Altagamma, che riunisce i più grandi nomi della moda e del design made in Italy e di cui è presidente l'onorevole Santo Versace. La notizia anticipata dal quotidiano Milano Finanza è stata confermata ieri dall'assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, e ha lasciato di sasso molti esponenti della maggioranza. «È arrivata una manifestazione di interesse — ha spiegato l'assessore —. Il sindaco si è riservato di approfondire e la prossima settimana incontrerà i vertici di Altagamma».
Cogestione pubblico-privato, cessione del 49 per cento delle quote, conferimento dell'immobile a un fondo. I contorni dell'operazione in fase di approfondimento a Palazzo Marino non sono ancora chiari, ma quel che è certo è che il Comune ha ricevuto una proposta di valorizzazione della Galleria dalla Fondazione Altagamma, che riunisce i più grandi nomi della moda e del design made in Italy e di cui è presidente l'onorevole Santo Versace. La notizia, anticipata dal quotidiano Milano Finanza, è stata confermata ieri dall'assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, e ha lasciato di sasso molti esponenti della maggioranza. «È arrivata una manifestazione di interesse — ha spiegato l'assessore uscendo dalla giunta —. Il sindaco si è riservato di approfondire e la prossima settimana incontrerà i vertici di Altagamma».
Sullo sfondo il Salotto di Milano, valore stimato attorno al miliardo di euro, che potrebbe essere trasformato in una vetrina mondiale di cui il Comune manterrebbe la proprietà con il 51 % del bene (che è inalienabile). Per la cessione delle rimanenti quote, Palazzo Marino avrebbe un incasso previsto di 450 milioni di euro. Più 35 milioni all'anno per gli affitti.
L'idea, accennata da Versace a Tabacci sugli scranni del Parlamento («Siamo vicini di banco alla Camera», ha ricordato scherzosamente l'assessore), è stata riassunta in una lettera datata 15 marzo e protocollata a Palazzo Marino. La Fondazione Altagamma, attraverso il suo segretario generale Armando Branchini, propone al Comune di «realizzare un piano di merchandising che possa coinvolgere l'intera struttura edilizia, compresi i piani superiori attualmente destinati a residenze o uffici e, comunque, sottoutilizzati», per realizzare nel tempo un centro dedicato «a design, arte, cultura, moda, ristorazione e prodotti alimentari». Una vetrina dei prodotti italiani soprattutto per stranieri.
Come? La proposta è quella del «conferimento del cespite a fondo immobiliare gestito da una società di gestione del risparmio». Verrebbe inoltre predisposto un «piano economico finanziario che preveda il mantenimento perpetuo della titolarità della proprietà al Comune attraverso la proprietà della maggioranza delle quote del fondo».Altagamma suggerisce quindi di «classare» la minoranza delle quote del fondo immobiliare (49%) «offrendo prelazione agli attuali conduttori». Incasso previsto per il Comune, appunto, 450 milioni. Nel tempo, inoltre, si propone di «prevedere l'adeguamento dei valori locativi in modo da ottenere per il Comune, a fronte della sua quota di maggioranza, canoni di affitto pari a circa 35 milioni di euro all'anno». Secondo la Fondazione, l'operazione determinerebbe un «volano di sviluppo del turismo finalizzato allo shopping dell'alta gamma italiana nei mercati extracomunitari». Con evidenti ricadute economiche, creazione di posti di lavoro e di servizi.
«Ci sono dei pareri da richiedere alle sovrintendenze — frena l'assessore Tabacci — ma l'idea è che la Galleria sia un bene di somma importanza che deve essere valorizzato al servizio dei milanesi. Non è un'offerta vincolante, è una manifestazione d'interesse». E ancora: «Non siamo un bancomat che deve sempre intervenire per tappare falle e gestire perdite. Bisogna che gli asset siano gestiti al meglio perché la crisi morde». Nessun commento sulle polemiche politiche e le prese di posizione dei consiglieri sulla necessità di garantire in Galleria presenze storiche e attività a prezzi accessibili. «Non vedo cosa ci sia di politico — ha tagliato corto Tabacci — per me ci sono cose serie e cose meno serie. Le botteghe storiche vanno tutelate nelle zone storiche».