Gli scritti di Renzo Moschini sono da anni un pungolo costante, quasi ossessivo, a tenere gli occhi bene aperti sulle dinamiche istituzionali che riguardano le aree protette italiane. E costituiscono anche un contributo essenziale di conoscenza: un contributo appassionato, competente e aggiornato che meriterebbe arene ben più ampie di quelle che riesce faticosamente a conquistare. Quest’ultimo libro fa il punto della situazione riferendosi in particolare ad al- cuni grandi blocchi tematici: la situazione generale delle aree protette italiane, le politiche generalmente dismissorie delle Regioni, la presenza (o l’assenza) della tematica dei parchi nei vari programmi elettorali, il livello e i contenuti della discussione sulle aree protette all’interno di Federparchi, le radici dell’approccio equivoco e potenzialmente devastante della “riforma” della Legge Quadro in discussione al Senato, la necessità di una mobilitazione che riporti la discussione da un lato su alti livelli teorici e da un altro sui contenuti concreti, in un momento avvertito come potenzialmente letale per i parchi italiani.
La lettura del libro, svelto come gli altri di Moschini, non richiede particolari avvertenze: tutte le persone che in questi anni hanno lavorato attorno alle aree protette o hanno riflettuto su di esse, vi ritroveranno temi familiari in un’ottica come sempre rigorosa e orientata anzitutto all’azione. Sollecitato dall’autore, vorrei invece fornire un ulteriore elemento di dibattito e – forse – di preoccupata urgenza ritornando su scenari più ampi rispetto a quelli trattati da Moschini, scenari dei quali la vicenda delle aree protette italiane è però parte integrante. In vari saggi di questo libro Moschini dimostra bene come la crisi dei parchi italiani non si esaurisce nel fenomeno dei tagli ai finanziamenti, per quanto tali tagli ne rappresentino l’aspetto più eclatante e pericoloso. Essa affonda le sue radici prime nella mancata attuazione di pezzi essenziali della Legge Quadro, già nel corso degli anni Novanta, e viene successivamente a coincidere con un appannarsi dello slancio politico e culturale che aveva portato, tra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, all’approvazione nonsolo della Legge Quadro del 1991 ma anche di altri provvedimenti di analoga ispirazione come la legge sul mare del 1982, quella sul suolo del 1989, quella sugli Enti locali del 1990 e molti altri “Protocolli, Convenzioni, risoluzioni europee”. Tutti provvedimenti, sottolinea Moschini, che discendevano dall’inserimento di nuove issues nel quadro costituzionale e da una concezione nuova e più ampia della democrazia e dei rapporti tra le varie istanze del governo della cosa pubblica. L’esaurirsi di quella felice stagione, cui non a caso ha fatto seguito il dilagare pressoché incontrastato del berlusconismo, ha anche favorito un ulteriore allontanamento (o forse un riallontanamento) dell’Italia dalla cultura di governo dei paesi centro e nord-europei, indelebilmente segnata da un forte senso di responsabilità istituzionale. L’ipotesi che avanzo è appunto che in un paese a modernizzazione limitata come il nostro, il gran numero di ritardi e di anomalie istituzionali rispetto alle democrazie centro e nord europee abbiano favorito un’estremizzazione dei caratteri più devastanti della teoria e delle prassi neoliberiste, che in ogni caso costituiscono da un trentennio la bussola politico-culturale incontrastata a livello planetario. Il neoliberismo è diventato infatti dall’inizio degli anni Ottanta pensiero e prassi unificata a livello mondiale, salvo poche e marginali eccezio- ni, ma ha avuto applicazioni e fortune diverse a seconda della cultura del pub- blico e del senso dello Stato con cui ha dovuto confrontarsi luogo per luogo. Se Reagan, com’è noto, ha potuto affondare la lama nel poco welfare e nei pochi diritti sindacali ereditati dall’epoca di Roosevelt come se si trattasse di burro, Margaret Tatcher ha dovuto ritirarsi dalla vita politica dopo aver demolito molto, ma anche di fronte a resistenze popolari e istituzionali insormontabili. E ancor oggi molti nobili pezzi del sistema di garanzie pubbliche costruito dal 1945 in poi in Gran Bretagna rimangono saldamente in piedi. Per un attimo la gravissima crisi manifestatasi a partire dall’estate del 2008 ha fatto pensare che tali politiche neoliberiste – causa prima della crisi medesima – fossero al capolinea, ma è stato presto chiaro che si trattava di un’illusione:già da tempo storici e analisti del neoliberismo (penso anzitutto a David Harvey) avevano chiarito che sono proprio le crisi economiche, e tanto più quanto più sono gravi, a costituire formidabili strumenti di riplasmazione e di reindi- rizzamento dell’economia, della cultura e della società in senso ancor più individualista e mercantile che in passato.
Il modello culturale neoliberista è infatti una forma di fondamentalismo ideologico che nega alla radice, programmaticamente, da un lato la legittimità stessa di qualsiasi dimensione collettiva e pubblica dell’agire sociale (giustamente celebre è la lapidaria definizione di Margaret Thatcher: “there is no such a thing like the society”) e da un altro lato qualsiasi dimensione culturale e morale non riconducibile ai valori dell’ottimizzazione mercantile, se non in casi strumentali e comunque anomali come quello dell’alleanza strategica statunitense tra neoliberismo e fondamentalismo cristiano. In queste condizioni tutto ciò che è espressione di valori e interessi collettivi, comunitari, che tende cioè a trascendere l’individuo inteso come homo oeconomicus in nome di valori non mercantili è considerato un’illusione, per di più un’illusione pericolosa, foriera di gravi guasti tanto all’economia quanto – di conseguenza – alla coesistenza collettiva.
In queste condizioni, inoltre, tutto ciò che non è riconducibile a utilità immediata, a qualche forma di redditività, finisce col ricadere in un limbo di anomia, di incomprensibilità. Rischia di divenire cioè un lusso tendenzialmente insensato. Lo vediamo bene oggi, del resto: la ricerca a cosa serve, se non a realizzare brevetti? A niente. La formazione a cosa serve, se non a plasmare forza lavoro di immediata utilizzabilità nel processo produttivo? A niente. Tutto quanto eccede rispetto a questi due fini è infatti considerato un costo senza alcuna ragionevole contropartita, un lusso arcaico e ormai insensato, un non senso da sopprimere senza remore. Rispetto a questo quadro le aree protette non costituiscono affatto un’isola felice. Sostengo al contrario che essendo esse un pezzo organico e particolarmente significativo della storia dell’Occidente, prima liberale poi socialdemocratico o socialista, esse sono precisamente nell’occhio del ciclone che sta travolgendo tutta questa storia.
Tutta la storia delle aree protette, al pari di tante altre cruciali invenzioni occi- dentali degli ultimi due e più secoli, dal welfare state alla tutela del patrimonio e alla formazione pubblica, è infatti storia di costruzioni collettive, nate dal riconoscimento di interessi collettivi e da sforzi comunitari mediati dalla sfera pubblica, fuori dal vincolo dell’utilità immediata del profitto mercantile e in molti casi proprio in opposizione alla logica di tale profitto. Non è certo un caso che il parco nazionale di Yellowstone, il mitico antenato di tutte le odierne aree protette, nasca “as a public park or pleasuring ground for the benefit and enjoyment of the people”; né è un caso che nel presentare il progetto di legge che sarebbe poi divenuta la nostra Legge Quadro 394 del 1991 Gianluigi Ceruti ricordasse come “la gestione dei parchi nazionali implica una disciplina dell’uso dell’ambiente naturale che, pur interferendo inevitabilmente con l’urbanistica non ne rimane assorbita perché comprensiva di valori più globali, non solo economici ma anche metaeconomici”.
Le aree protette costituiscono insomma una sorta di quintessenza dell’interesse collettivo, inteso tra l’altro in modo via via più ampio: da quello squisitamente nazionale dei parchi di fine Ottocento-inizio Novecento fino a quello universale affermatosi dopo la seconda guerra mondiale. E sin dalle origini sempre in senso schiettamente intergenerazionale. Ciò che oggi minaccia alla radice le aree protette come prassi istituzionale ma ancor più come idea, come progetto, non sono insomma tanto e solo i tagli finanziari operati in questo periodo in Italia, l’incuria e l’incultura del Ministero e delle Regioni o il disinteresse delle forze politiche, ma prima di ogni altra cosa il compatto predominio della teoria e della cultura neoliberista e l’ancor più compatto dominio delle cosiddette “ricette” operative che invariabilmente da quella teoria discendono. Sotto tale dominio è un’intera civiltà che viene minacciata alla radice, è minacciato cioè un modo di considerare non solo l’economia ma ancor più la società, il vivere comune, la cultura. E con essa tutti i suoi ricchi e abbondanti frutti istituzionali prodotti in oltre due secoli. Da queste fin troppo schematiche considerazioni traggo due semplici e provvisorie conclusioni. La prima è che nessuno è autorizzato a pensare che le misure prese da Mario Monti e dai suoi ormai ex tecnici (ma lo sono mai stati davvero?) e votate dalla quasi totalità degli schieramenti politici italiani possano costituire in alcun modo una amara ma necessaria premessa risanatrice a un qualsivoglia “ritorno alla normalità”. Esse vanno considerate al contrario coerenti misure di smantellamento, il cancro che corrode – misura dopo misu- ra, spending review dopo spending review, finanziaria dopo finanziaria – tutte quelle che noi qui oggi riteniamo irrinunciabili conquiste di civiltà e per le quali ci battiamo da sempre con generosità e passione. Se non passiamo attraverso questo rovesciamento di prospettiva difficilmente conquisteremo – a mio avviso – una piena consapevolezza dei contorni e della dimensione della crisi delle aree protette, non solo italiane ma anzitutto italiane. La seconda conclusione è che se assumiamo questa prospettiva dobbiamo anche fare un altro passaggio mentale della massima importanza. Dobbiamo riconoscere cioè che la tutela dell’ambiente, la tutela del paesaggio, la tutela del territorio, la tutela del patrimonio storico artistico sono minacciati dalla stessa logica e dalle stesse misure, e per gli stessi motivi. E dobbiamo anche riconoscere – cosa più difficile ma altrettanto necessaria – che l’attacco all’ambiente, al territorio, al paesaggio, al patrimonio storico artistico e la progressiva dismissione della tutela sono una cosa sola con la dismissione del welfare state, della formazione e della ricerca pubbliche, della cultura umanistica e di quella critica. Da ciò discende a mio avviso che il nostro orizzonte, cioè l’orizzonte di chi oggi si batte nel nostro paese per un’organica politica delle aree protette, non può essere altro che quello che forse confusamente ma anche in modo urgente e generoso sta cercando di costruirsi sotto lo slogan dei “beni comuni”.
Il nostro posto deve essere attivamente e consapevolmente in quell’orizzonte, in una prospettiva di profondo cambiamento del senso comune e di radicale rovesciamento delle politiche pubbliche, in stretto rapporto con chi si occupa di tutela del patrimonio storico artistico, facendo attivamente fronte comune con chi difende il modello sociale europeo nelle sue varie articolazioni: diritti di cittadinanza, diritti sindacali, democrazia rappresentativa, sviluppo della ricerca e della formazione pubbliche. Tutto questo, però, con un’avvertenza in più per quel che riguarda il nostro specifico, cioè le aree protette, in quanto esse sono tra le nostre conquiste collettive e di civiltà più fragili rispetto all’offensiva neoliberista. E questo per tre motivi. Il primo motivo è che esse nascono per tutelare degli interessi che noi possiamo considerare cruciali – e anche più cruciali di altri – ma che sono collettivi per eccellenza, e oltretutto fortemente diluiti nel tempo e nello spazio: i parchi tutelano infatti interessi e diritti che sono prima di ogni altra cosa universali e intergenerazionali e persino non umani. E questi sono tutti interessi tipicamente non riconosciuti, e anzi ritenuti scioccamente o pericolosamente ideologici dalla vulgata e dalla prassi neoliberista. Uno dei rischi non minori che corrono le aree protette è quindi quello di essere considerate presidi di interessi ben più che illegittimi, addirittura illusori, inesistenti, con tutto quanto ne consegue in termini di politiche concrete.
Il tentativo recente e sempre più frequente di legittimare, ad esempio attraverso una lettura riduttiva di elaborazioni UICN, l’esistenza delle aree protette principalmente o addirittura esclusivamente sulla base della loro capacità di produrre “servizi ecosistemici” rappresenta un cedimento estremamente pericoloso all’ideologia neoliberista, sia dal punto di vista culturale che dal punto di vista delle politiche effettive. Il secondo motivo è più concreto, ed è che esse non presentano in ogni caso pressoché nessun aspetto direttamente redditizio. A differenza dei musei, dei singoli monumenti naturali o storico-artistici di maggior prestigio o anche di alcune singole opere d’arte un’area protetta non è in grado di produrre reddito immediato se non in misura marginalissima. Di contro, le aree protette costituiscono un costo che appesantisce il livello generale di tassazione. Sono insomma istituzioni che costano e che in quanto tali non producono alcun introito realmente significativo. Che producano ricchezza indirettamente ha ben poca importanza, anche perché la contabilizzazione di tali ricchezze è faticosa e dai risultati sempre un po’ dubbi, per non dire sospetti, e comunque non si tratta mai di profitti canalizzabili agevolmente all’interno dei grandi flussi finanziari a carattere speculativo, gli unici che veramente oggi contano politicamente. Il terzo motivo, che è un corollario del secondo, è che le aree protette non pos- sono essere oggetto di compravendita. Un sistema sanitario con le sue strut- ture e le sue aspettative di profitti e di rendite si può mettere sul mercato – lo sappiamo bene; un sistema formativo, idem; un sistema penitenziario pure; persino un sistema di gestione del patrimonio artistico si può mettere sul mercato. Cosa succeda dopo lo possiamo ben immaginare, ma ai fini del no- stro ragionamento conta ben poco. La questione essenziale è che un sistema di aree protette non si può mettere sul mercato perché non è costituito da beni economicamente significativi né offre possibilità di gestione capace di generare profitti o rendite ragionevoli. In una prospettiva – fantascientifica ma non troppo – di smantellamento totale dell’intervento pubblico nel campo del sociale e dei diritti il destino delle aree protette è quindi puramente e semplicemente quello di sparire. Si osserverà a ragione che i segnali che arrivano dal resto d’Europa, dove pure domina lo stesso tipo di cultura economico-politica, le aree protette non stanno sparendo ma anzi in molti casi vengono ampliate e fatte oggetto di politiche sempre più raffinate. Questo è in effetti quanto sembra emergere tanto da analisi di alcune politiche nazionali quanto da panoramiche generali come quella offerta pochi mesi fa dalla European Environment Agency nel suo studio Protected areas in Europe – an overview, ma come ho accennato più sopra gran parte dei paesi citati positivamente nello studio (Francia, Germania, Regno Unito) sono paesi di solida tradizione statuale e di grande responsabilità istituzionale per cui è abbastanza difficile che tendano ad abbandonare a se stesse o addirittura a far morire istituzioni pubbliche prestigiose e amate comele aree protette; inoltre, ad aggravare il cupio dissolvi italiano c’è la disgraziata collocazione del paese nel novero degli stati oggetto di attacchi speculativi e di conseguenza oggetto di politiche di aggiustamento draconiane, uno dei cui fini strategici è sempre quello di ridurre drasticamente gli spazi di intervento pubblico. Che tali politiche siano inefficienti ai fini della ripresa e al tempo stesso devastanti istituzionalmente, socialmente e culturalmente, come ormai affermano in molti di qua e di là dell’Oceano e come comincia ad apparire evidente, sembra d’altra parte non interessare che a pochi.
Mi pare che queste siano, per l’essenziale, le radici dei fenomeni descritti da Renzo Moschini lungo le pagine di questo volume. Se questo è vero, la risposta deve essere molto consapevole e decisa, evitando tutti quei compromessi che finiscono poi regolarmente per sfociare in iniziative equivoche e dannose. E deve essere una risposta multiforme: da parte di chi opera a vario titolo nelle istituzioni, di chi milita nei partiti, di chi lavora nelle aree protette, di chi sta nelle associazioni ambientaliste, ma soprattutto deve essere nuovamente una risposta che parte dalla cittadinanza, dalla mobilitazione di base. Senza un ampio movimento popolare, quanto possibile analogo a quello degli anni Settanta e Ottanta, e anche stavolta ancorato ad ambiti più vasti (beni comuni, democrazia, rappresentanza, nuovo modello di sviluppo) per le aree protette italiane il destino è segnato. In questo senso le recentissime riflessioni – e proposte – consegnateci da Salvatore Settis col suo Azione popolare. Cittadini per il bene comune, sembrano davvero inaggirabili. Quando con Renzo Moschini e tante altre figure, vecchie e nuove, del mondo dei parchi abbiamo avviato l’esperienza del Gruppo di San Rossore proprio a questo pensavamo. E questo libro è parte di questo percorso, ancora tutto da costruire.