Recensione a Da grande voglio fare il poeta (ed. La vita felice), nuovo lavoro narrativo autobiografico dell'urbanista Giancarlo Consonni, che ci «illustra per quadri la versione cittadina dell’esistenza». L'Unità, 12 agosto 2013 (f.b.)
«PULVER SULFER FÈN/ TÉRA TÉPA LÈGN». Comincio dai primi sue versi di una breve poesia in uno dei dialetti della Brianza lombarda (uno dei tanti dialetti: anche la lingua smentisce l’idea balzana della Padania unita), nell’estremo sud della provincia lecchese. Cioè polvere zolfo fieno terra muschio legno: la materia, gli odori, i colori della campagna, breve poesia riprodotta sulla copertina di una raccolta intitolata Vûs, voci, pubblicata da Einaudi nel 1997, una raccolta divisa in due perché la seconda parte, che s’apre con Gruista (cito la versione in italiano: «Se mi piace/ fare il gruista?// Rinascessi uccello/ voglio tornare qui./ Quegli uomini là in basso/ scalpitanti/ e io che bestemmio/ vicino a Dio»), illustra per quadri la versione cittadina dell’esistenza, dove qualcosa della prima, umanità, solidarietà, comunità e natura, ovviamente, sopravvive, straziata però, impoverita, ai margini.
Tra campagna e città, Giancarlo Consonni, l’autore di questi versi, ritorna con un libro di narrativa, autobiografico ma non solo perché tanti e diversi sono i piani di lettura del passato e del presente e schivo è il narratore. Le origini, cioè i campi e le cascine di Verderio Inferiore (dove Consonni è cresciuto), sono la trama fitta, che di tanto in tanto si interrompe in un ostacolo, che è un ritrovarsi noi, tramontata quella civiltà, di fronte ai segni (e alle devastazioni) della nostra modernità. Giancarlo Consonni (che ha scritto un tempo spesso anche per l’Unità) è diventato poeta, come s’augurava da ragazzo e come ripete il titolo di questo libro, Da grande voglio fare il poeta, ma intanto è diventato anche professore d’urbanistica al Politecnico di Milano. Ricordiamo il poderoso saggio (con Graziella Tonon) sui «caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea», in un volume nella collana «Regioni» dell’Einaudi.
Qualcosa di un rapporto tanto stretto e continuo con l’urbanistica e l’architettura del Novecento e di questi ultimi perfidi anni resta anche in un libro che, ad apertura, si direbbe solo di memorie e quindi forse soprattutto di nostalgia. Nostalgia per i filari di gelsi, cancellati dalla meccanizzazione dell’agricoltura, per le antiche cascine a corte, disabitate, abbandonate o trasformate in condomini, dopo la fuga verso l’industria di braccia troppo numerose per quei campi immiseriti, nostalgia per una natura popolata di animali, di lupi un tempo e poi di faine, di volpi, di talpe, di uccelli di ogni genere, nostalgia per la parlata di quei luoghi, per dialetti che si incrociavano, ma che nel vocabolario e negli accenti rivelavano appartenenze precise, a luoghi però appena separati, magari, da una strada o da un canale. Ricchezza questa varietà di parole, com’era rigogliosa la natura, razionale e funzionale (anche nella ricerca estetica) l’architettura, geniale, fantasiosa, plurima l’arte di vivere e convivere (e di alimentarsi per vivere da poveri).
Fin qui può essere il ricordo, che di tanto in tante batte contro l’inevitabilità dell’oggi: la motocicletta che diventa il simbolo del successo, la villetta a schiera, il salotto inviolato nella plastica che rimpiazza il porticato e la stalla, la solitudine e l’isolamento contro la coralità dei racconti, delle interpretazioni, delle narrazioni. La lambretta e poi l’auto, le poltrone, la cucina americana: la bellezza per molti si rifugia o si riduce negli oggetti, mentre il mondo si incammina svelto sulla strada della bruttezza: «Si infittiva la schiera degli officianti del disastro: speculatori e capomastri (tutti), geometri (quasi tutti), ingegneri (molti), architetti (in crescita esponenziale)... esibizione, kitsch e cattivo gusto...». Alle spalle era quella campagna.
Viridarium è il nome antico del borgo, i personaggi come padri e madri, che si suddividono mille mestieri, come il Biagio (il mercante di formaggi di una poesia: «Nere tettazze da ungere e far rotolare/ forme che il grasso pastura il loro essere grasse/le gira e rigira fin che sembra/ un abissino che abbraccia l’Abissinia» (il grana che un tempo si ungeva di un olio nero e pesante per aiutarne l’invecchiamento), il fiume (l’Adda), i boschi, le bestie (cominciando da cavalli, asini e mucche), l’osteria, la strada, i campi. Ci sono pagine anche per i primi viaggi a Milano e il quadro è del bambino che aspetta sulla scalinata del tribunale, spazio per lui da fiaba e da gioco. L’osservazione dell’architetto a proposito del palazzone di Marcello Piacentini è folgorante: «L’architettura è importante, ma gli uomini sono più forti. E ancor più i bambini».
L’ultima scena è per il cacciatore che arriva di città che spara sulle rondini: «Uno degli atti più sacrileghi che, per noi, si potesse concepire...». È un atto di rottura: da lì comincia la «disintegrazione del mondo». Il ricordo personale sostiene la riflessione collettiva, anche politica, con una discrezione che esalta il valore del libro.