«Da Palermo a Venezia. Lo strazio dei territori e delle città: una devastazione civica che comporta vere e proprie patologie». Il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2016 (p.d.)
Con perversa metamorfosi, le nostre città si tramutano in agglomerato di periferie, divorando al tempo stesso il loro cuore antico (il “centro storico”) e la circostante campagna o, come a Palermo, la costa. Dobbiamo ormai considerare sotto una stessa rubrica nozioni un tempo opposte, come centro/periferia o città/campagna. Fra l’una e l’altra corrono confini difficili da fissare, da regolare, da vivere. Periferie, spazi residuali, non-luoghi, “zone grigie”, junk space, rovine urbane: queste e altre categorie del discorso frammentano la forma della città, appestano il paesaggio storico. Abbagliati da una colpevole estetizzazione dello spazio, anche se devastato, tendiamo a non vedere intorno a noi croniche topografie del disagio individuale e sociale, e ci allarmiamo solo quando i veleni dell’ambiente minacciano la nostra salute. Ma il destino dei viventi e la qualità degli spazi sono due facce della stessa medaglia: fra l’inquinamento ambientale e l’inquinamento antropico prodotto dal dilagare di pessime architetture non c’è poi una gran differenza. L’uno colpisce la salute del corpo, l’altro la salute della mente. In una rincorsa al peggio, le brutture delle periferie e gli orrori delle discariche si nascondono a vicenda, ci accecano, ci impediscono di cogliere l’enormità del disastro che ci colpisce.
Nuove ricerche di sociologi, psicologi, antropologi definiscono lo spazio in cui viviamo come un formidabile capitale cognitivo che fornisce coordinate di vita, di comportamento e di memoria, costruisce l’identità individuale e quella, collettiva, delle comunità. Il grado di stabilità dei luoghi in cui viviamo è in diretta proporzione a un senso di sicurezza che migliora la percezione di sé e dell’orizzzonte di appartenenza, favorisce la produttività degli individui e delle comunità, innesca la creatività. Per converso, la frammentazione territoriale, la violenta e veloce modificazione dei paesaggi, l’obesità delle periferie provocano severe patologie individuali e sociali. Due formule vengono alla mente: “angoscia territoriale” e “di smorfofobia”. “Angoscia territoriale” non più nel senso (De Martino) di sradicamento dell’emigrante strappato ai propri orizzonti, ma come ansia di chi resta nei propri luoghi e non li riconosce più perché devastati da mostri di cemento o da montagne di detriti che ne annientano la familiarità. La nozione complementare di dismorfo-fobia descrive bene il passaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva: nella pratica psichiatrica essa definisce i disturbi psichici di chi non accetta il proprio corpo come è, e lo vive come una “forma distorta” (questa l’etimologia greca di dis-morfo). Ma anche la forma distorta della città e dei paesaggi provoca sofferenze individuali e disturbi del corpo sociale. Più grave di ogni dismorfo-fobia individuale è la dismorfo-fobia delle comunità.
Il progressivo abbandono dei centri storici (a Palermo come a Venezia) da parte della popolazione residente lascia dietro di sé una scia di edifici in abbandono, che presto si trasformano in precari insediamenti di immigranti, nuovi poveri, disoccupati, esclusi. Edifici storici anche di massimo pregio vanno in rovina, e la sola ricetta finora escogitata per rimediarvi è una frettolosa gentrification, che comincia con l’espulsione dei meno abbienti e agghinda i fabbricati aggiornandone non solo gli impianti igienici, ma l’intera struttura, a scapito delle sue caratteristiche storiche.
Ma non è questo il percorso di riscatto di cui le nostre città hanno bisogno. Città, paesaggio circostante, patrimonio artistico, ambiente formano un ecosistema di cui gli abitanti sono componente essenziale. Rigenerazione urbana e rigenerazione umana sono due facce della stessa medaglia, e non c’è salvezza per le città e i paesaggi che non passi per una politica del lavoro, massimamente per i giovani. Precisamente il contrario di quel che vanno facendo i nostri governi, puntando sull’edilizia in nome non dei cittadini ma delle imprese e soffiando sul fuoco di un’austerità eterodiretta che incrementa la disoccupazione. Senza neppure accorgersi che il restauro dei paesaggi e la messa in sicurezza del territorio e dell’ambiente è la sola grande opera di cui il Paese ha bisogno, e che merita fortissimi, immediati investimenti.
Un tal riscatto deve incidere sulla realtà, trasformandola in nome di un orizzonte di diritti, in cui democrazia e legalità costituzionale facciano tutt’uno. Sfidando i confini difficili dentro e intorno alla città, ripudiando il ruolo di spettatori passivi che il cinico uso speculativo degli spazi sembra averci riservato. Ma i cittadini (e le associazioni) lo sanno sempre più chiaramente: è venuta l’ora di vedere nello spazio che abitiamo non una merce passiva da sfruttare ma il vivo scenario di una democrazia futura, innervata dal diritto al paesaggio (art. 9 Cost.) e dal diritto al lavoro (art. 4).