È tornato a Napoli dopo quasi cinquant’anni. Un tempo normalmente sufficiente a suturare o anche solo a lenire le ferite. E invece, niente. «La verità, caro Caracas, è una sola», scrive Ermanno Rea a pagina 141 di Napoli Ferrovia, il suo nuovo libro (Rizzoli, pagg. 357, euro 19), ed è che «io non sento di appartenere più a questa comunità. Tra noi, tra me e la città, è accaduto qualcosa di irrevocabile che rende impossibile ogni ipotesi di ritorno: sarebbe come votarmi a una tragica infelicità. Ormai io sono uno straniero, anzi un rinnegato che si è fatto straniero».
Napoli Ferrovia è il resoconto dello struggente tentativo di tornare non solo fugacemente nei luoghi abbandonati mezzo secolo prima. Un tentativo che mescola la città alla propria vita, i cui primi trent’anni furono in gran parte spesi in quel poligono austero e fatiscente che si chiude fra piazza Cavour, il quartiere Sanità e poi via Foria, piazza Principe Umberto e quindi la Duchesca e piazza Garibaldi. Qui, appunto, è la Ferrovia, un nome che nella toponomastica partenopea designa non tanto un luogo, ma una vasta conurbazione antropologica, che nei decenni ha cambiato la sua fisionomia e oggi è il cuore del grande melting pot mediterraneo, con le parlate napoletane che inseguono gli idiomi maghrebini e mediorientali.
Con Ermanno Rea parliamo di questo libro nella sua casa romana, a cento metri dalla Porta Angelica e dal Vaticano. Rea ha ottant’anni e i capelli candidi. Napoli Ferrovia chiude un ciclo che avvolge la sua geografia e la sua storia. Mistero napoletano (Einaudi, 1995) raccontava il suicidio di Francesca Spada, una giornalista dell’Unità di cui era stato amico, una donna che caricava sulle sue fragili spalle il peso di redimere gli ultimi. La dismissione (Rizzoli, 2002) narrava invece l’infrangersi del sogno di una Napoli operaia, raffigurato nello smantellamento dello stabilimento siderurgico dell’Italsider e nella storia personale di Vincenzo Buonocore addetto a smontare la fabbrica per venderne i pezzi alla Cina.
«Avevo in mente un personaggio letterario», racconta Rea, «quello di un super operaio che racchiudesse i simboli e le speranze di cui ci eravamo nutriti da giovani, immaginando un destino della città non necessariamente plebeo. L’ho trovato frequentando la mensa e il piazzale dell’Italsider e alla fine l’ho trovato e gli ho cambiato il nome. E ho potuto verificare che quell’idea non era campata in aria».
Nasce così anche Caracas. Il protagonista di Napoli Ferrovia cercava qualcuno che lo accompagnasse nella città oscura e minacciosa, e ha immaginato che questo qualcuno fosse uno straniero, un venezuelano convertito all’islam, "un integralista romantico" con un passato da naziskin, ammiratore di Yukio Mishima e anch’egli, come Francesca di Mistero napoletano, schierato dalla parte degli ultimi: «Scendo con lui nell’inferno, e lui me lo spiega, mostrandomelo così come lo vede con i suoi occhi: senza rancore per nessuno, disprezzo per nessuno, gelosia per nessuno». Caracas è un nome di fantasia dietro il quale si cela una persona reale, una persona che ha letto questo libro mano a mano che vedeva la luce e che ha avuto - come Rea racconta nelle ultime pagine del libro - una reazione di rigetto, sparendo in quel nulla nel quale era stato raccolto. Come per Mistero napoletano e per La dismissione, anche qui Rea incrocia l’universo letterario e la realtà, ma con una forte intensità nello stile, utilizzando l’autobiografia al pari di uno strumento che fortifica la facoltà di conoscenza e senza mai scivolare in una lingua sciatta.
Con Caracas, il protagonista (qui Rea mette in scena sé stesso e l’incarico ricevuto nel 2002 di presiedere il Premio Napoli) comincia a realizzare il progetto che ha preso forma dentro di lui diventando sempre più impellente mano a mano che si avvicinava il giorno in cui, ancora una volta, ma stavolta per sempre, avrebbe abbandonato la città: ritrovare le origini, i luoghi dell’infanzia, per capire che cosa abbia voluto dire per lui vivere e invecchiare. Alla figura di Caracas si sovrappone quella di un amico della Napoli di allora, lo scrittore Luigi Incoronato, che muore suicida nel 1962, attaccandosi al tubo del gas esattamente un anno dopo la Francesca di Mistero napoletano, entrambi nei giorni a ridosso di Pasqua. Scala a San Potito, il migliore dei suoi romanzi, un libro sconsolato, racconta di un giovane attratto da un sordido ospizio per poveri, luogo derelitto frequentato da uomini senza speranza. In quegli stanzoni aveva vissuto Giovanni, un suo amico, da poco scomparso. Al quale, una sera, si era rivolto con un’espressione: «Se mi capita di poter fare qualcosa per te, che ne dici?». In quella frase, scrive Rea, «a me pare riconoscere tutta intera la mia giovinezza, assieme a quella di Incoronato e non so di quanta altra gente che, come noi, considerava il prossimo suo, la società, non semplici astrazioni concettuali, ma insiemi di persone vere, in carne e ossa».
La Napoli alla fine degli anni Quaranta e per buona parte del decennio successivo è il luogo in cui, essendovi alloggiata la più imponente base americana del Mediterraneo, si vive il senso di separatezza che reca con sé la Guerra Fredda (di questo Rea ha parlato a lungo in Mistero napoletano). Ma è anche il luogo in cui si spezzano nella miseria del dopoguerra quelle reti che avevano consentito alla parte più debole della città di barcamenarsi. «Sai cosa facevamo, non dico tutti i giorni, ma spessissimo, due, tre volte a settimana?», domanda Rea a Caracas. «Andavamo nei vicoli più bui a predicare. Anzi no, non a predicare, ma a portare la speranza. La speranza nel vicolo. Non era mai successo. Dicevamo alla gente, al disoccupato, alla madre di sette figli, al ragazzo analfabeta: guardate gente che voi siete degli esseri umani, con gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri».
Quest’opera di apostolato sociale era poi finita in cenere. Il comunismo in cui quei giovani credevano si era rivelato una sanguinaria utopia. Ma quell’afflato continuava a pulsare, non poteva essere sistemato in un polveroso archivio della memoria. Ed è per capire cosa ne è rimasto che il protagonista di Napoli Ferrovia cerca un Caracas che lo accompagni a scoprire quanto di quelle speranze, sotto le quali sono rimasti schiacciati Francesca e Luigi, sopravviva nei vicoli incrostati di vecchia e nuova sofferenza.
Ma l’esito non può che essere una nuova fuga. La Napoli contemporanea imbarbarisce a vista d’occhio, annota Rea. E lui non sopporta più «i sorrisi molli della gente» di fronte al degrado. Maledice la tolleranza che si manifesta verso l’arbitrio lungo tutta la scala gerarchica, dal basso fino ai luoghi del potere. «Come è successo che questo germe, questa malattia della tolleranza è penetrata dentro di noi fino a condizionare la nostra stessa antropologia?». La sua requisitoria si specchia, pur non collimando, in quella di un altro scrittore disincantato, Luigi Compagnone, che declinava verso l’invettiva disperata, condensata nel titolo di un libro: «Odio Napoli». Che era un modo diverso, aggiunge Rea, per gridare: «Amo Napoli».
«Il cosiddetto rinascimento napoletano è stato una fonte di equivoci a non finire», dice ora Rea guardando un punto fisso nella parete di fronte a lui. «Sarebbe stato necessario orientare la città verso un impegno collettivo nel senso di un recupero della legalità. Ma invece di rivoltarla come un calzino, Napoli è stata oggetto di rassicurazione». Rea ci ha provato finché ha diretto il Premio Napoli, ha organizzato questionari sulla legalità, ha allestito circoli di lettura, uno dei quali nel carcere di Secondigliano. Ma un giorno, dopo aver tentato di medicare la ferita che cinquant’anni prima lo aveva indotto a fuggire, ha finito di scrivere la lettera di dimissioni che aveva iniziato chissà quante volte. E l’ha spedita.