Trascrizione dell’intervento all’assemblea della ReTe dei comitati per la difesa del territorio, tenutasi a Firenze il 1° luglio, sui temi del centro storico: espulsione dei cittadini ed estrazione di profitti a vantaggio di pochi. La Città invisibile online, 4 luglio 2017 (p.d.)
Nel presente contributo vorrei offrire alcune chiavi di lettura utili alla comprensione del fenomeno dell’estrattivismo e della monocoltura del lusso in atto nelle città d’arte mercificate e desertificate, ed enucleare alcune prospettive operative di resistenza [1].
Estrattivismo e monocoltura
Con il termine “estrattivismo” si intende il sistema di accaparramento di risorse naturali, loro commercializzazione ed esportazione, contro il volere delle comunità locali e contro gli equilibri dell’ambiente. L’«accaparramento tramite spossessamento» (Harvey) e l’estrazione di rendite monopolistiche perpetrati da imprese multinazionali rientrano nel quadro delle dinamiche coloniali e neocoloniali cui si confanno la militarizzazione del territorio, la violazione di principi di convivenza democratica, la violenza e la repressione. Fondato sulla monocoltura (agro-industriale, industriale e delle megaminiere), il modello estrattivista impoverisce e isterilisce vaste aree geografiche e intere nazioni del sud del mondo. Impoverisce socialmente, poiché, come è stato scritto, depriva, spossessa le popolazioni di progettualità sul proprio ambiente di vita (Zibechi) [2].
Traslato sull’ambiente urbano, l’estrattivismo assume i tratti di accumulazione di capitale a spese della città, che è, per definizione, costruzione collettiva e bene comune, nonché giacimento limitato. Tale modello si manifesta nelle alienazioni degli edifici pubblici, nella privatizzazione delle imprese pubbliche, dei servizi e delle risorse primarie (acqua etc.), nella chiusura di parti di città (si ricordi la cena Ferrari sul Ponte Vecchio), nella locazione di sale monumentali e musei, nella brandizzazione, ossia nella collocazione del marchio cittadino (il brand) sui mercati immobiliari e finanziari globali. Nella creazione del brand, l’Unesco ha un ruolo non secondario (Choay). Si tratta, insomma, di un meccanismo di produzione di denaro attraverso l’acquisizione privata (indebita e sotto costo) di patrimonio pubblico. Senza neanche la contropartita di lavoro dignitoso e impiego di lunga durata che pure era offerta dal capitalismo temperato dalla socialdemocrazia.
Estrattivismo e città d’arte
Nelle città d’arte il fenomeno estrattivo si manifesta drammaticamente, poiché la pressione economica agisce su un’area ristretta, di carattere storico e monumentale. Nel nucleo centrale, la popolazione residente è espropriata dello spazio di vita civica (il quale ha carattere memoriale, antropogenetico, identitario), espropriata dell’agibilità e dei servizi. È letteralmente espulsa a causa dell’innalzamento dei valori immobiliari. La monocoltura turistica non è in grado di mettere in moto spinte riproduttrici di patrimonio, anzi lo consuma irreversibilmente, e tantomeno è in grado – lo si è accennato – di redistribuire efficacemente reddito. È emblematico il fatto che, anche quando la monocoltura turistica opera sotto le spoglie della sharing economy, essa riesce a canalizzare nelle mani di pochi i profitti estratti dalla città di tutti, a concentrare il potere e a far espatriare i proventi.
È il caso del colosso statunitense Airbnb[3]. A dispetto delle premesse (in nome dell’economia della condivisione) Airbnb crea diseguaglianze tra piccoli locatori e grandi agenzie che gestiscono per conto terzi centinaia di appartamenti. Il fenomeno è pervasivo: a Firenze oltre il 18% dell’intero patrimonio immobiliare del centro storico è un b&b promosso dalla piattaforma americana[4]. La massima parte è costituita da interi appartamenti in affitto gestiti da terzi, poche invece le singole stanze presso famiglie. È un dato che dimostra peraltro l’internità dei cittadini alle dinamiche estrattive. Ricordo che a Firenze, nel 2016, si sono registrate 9 milioni e 391.000 presenze (fonte: Città metropolitana di Firenze, Centro Studi Turistici) che hanno insistito principalmente sull’area centrale abitata da 52.527 persone[5].
Turismo
Nel suo ultimo libro – Il selfie del mondo (Feltrinelli, 2017) – Marco d’Eramo ci rassicura: l’età del turismo di massa sta tramontando. Il turismo di massa – in quanto messa in valore delle ferie pagate – è espressione di una società fondata sul lavoro salariato. Oggi, al tempo dell’autoimprenditorialità, dell’erosione dei diritti e del declino delle forme di lavoro tutelato, il turismo di massa non è più in grado di offrire agli investitori una prospettiva luminosa di profitti crescenti. Per queste ragioni l’industria turistica cerca nuove strade e nuove configurazioni. Essa sta infatti indirizzando i propri interessi di mercato verso il nomadismo – un po’ bobó – per studio e lavoro e verso il turismo di lusso (studentati a cinque stelle, resort, “luxury hotel”, spa etc.). Quanto al nomadismo per fame e guerre, è un capitolo che poco interessa all’industria turistica e quindi agli amministratori locali. A Firenze questa mutazione verso il turismo e il consumo di lusso è nell’aria già da tempo.
Lusso
Risultato di diseguaglianze sociali evidenti, espressione della canalizzazione delle ricchezze (sempre più concentrate) verso consumi esclusivi e non raramente predatòri, simbolo di avvenuta ascesa sociale, il lusso è connesso con il mondo della moda, dell’industrial design, delle cure e del benessere, del turismo, dell’immobiliare, etc. Le città d’arte risultano particolarmente indicate per fornire gli scenari di pregio utili a localizzare i consumi di lusso e la propaganda.
Gigantismo
Non è possibile affrontare i temi dell’estrattivismo urbano e della monocoltura turistica senza richiamare le profonde mutazioni territoriali legate alla delocalizzazione della produzione, e alle nuove forme di commercio (e di turismo) online[6]. Il sistema della logistica mondiale mette in atto una drastica semplificazione insediativa, a scala ciclopica. Un nuovo modernissimo gigantismo fondato sulle grandi distanze, sui grandi centri di produzione e di smistamento, colossali sistemi organizzativi di vendita (gli “scaffali elettronici” o le piattaforme turistiche elettroniche, come la citata Airbnb), grandi porti, “grandi navi” e città monocolturali. Fasci di velocissime vie di comunicazione – i “corridoi” – collegano con fluidità produzione e consumatore, le metropoli alle città d’arte. Le aree interne diventano sempre più distanti; il treno si riduce a «metropolitana d’Italia»[7] che taglia i territori, li scarta e li trasforma in puro ostacolo geospaziale.
Le grandi trasformazioni
A queste brame di gigantismo sono riconducibili, a Firenze, il TAV e – in maniera ancor più evidente – il nuovo (progettato) aeroporto che unisce mirabilmente i desideri di sviluppo dell’e-commerce e dell’e-tourism. In linea coi peggiori esempi di accaparramento sudamericano, un imprenditore argentino nei mesi scorsi ha tentato un’operazione di land grabbing al fine di garantirsi le terre su cui costruire l’agognato aeroporto. Le grandi trasformazioni minano alla base lo spazio della convivenza civile. Ma anziché rappresentare un’emergenza per la vivibilità su cui far confluire le attenzioni di governo, gli effetti cantieristici delle grandi opere diventano motivo d’orgoglio per gli amministratori: in una città paralizzata dai cantieri di TAV e tramvie, Nardella – nella relazione sui suoi primi mille giorni da sindaco – affermava trionfale: «governiamo la più grande trasformazione della città degli ultimi 150 anni in termini di riqualificazione e grandi infrastrutture». Grandi opere, enormi ambizioni.
La svendita del patrimonio immobiliare pubblico
Come abbiamo più volte denunciato, gli amministratori, mettendo all’incanto il patrimonio pubblico, e facilitando gli appetiti predatòri degli immobiliaristi, si sono zelantente trasformati in curatori fallimentari dell’ente pubblico. La trasformazione privatistica della Cassa Depositi e Prestiti e del Demanio è stata peraltro congeniale alla metamorfosi della gestione urbana in mera ragioneria. L’arte di attrarre le speculazioni straniere sulla città storica si chiama ora
Cultural Real Estate Development. Estrattivismo sedicente “culturale” nel quale i
developers si devono muovere senza ostacoli che gli amministratori pubblici si prodigano ad abbattere.
Un esempio. Nelle scorse settimane, una sentenza della Corte di Cassazione ha bloccato i lavori in varie decine di grandi cantieri nel centro città: “se c’è cambio di destinazione d’uso non è restauro”. Cioè: i lavori negli edifici monumentali, se non condotti con i metodi del restauro, sono abusivi. Nessun problema: le pressioni da palazzo Vecchio su palazzo Chigi hanno prodotto un emendamento alla manovra economica che, a sua volta, è andata a modificare il Testo Unico dell’Edilizia[8] e ha spianato il campo. Procedono quindi senza impedimenti: le trasformazioni private sull’ex Borsa Merci, sulla Manifattura Tabacchi, e sulle ex caserme e conventi di San Gallo, il Maglio, Sant’Orsola etc.; l’insediamento della “esclusiva” Fondazione Zeffirelli nell’ex Tribunale in piazza San Firenze; l’hotel a cinque stelle nella ex caserma di Costa San Giorgio, nel Monte di Pietà etc.; i due «ostelli di lusso» (Casa del Sonno ed ex Fiat-Belfiore); la riduzione in appartamenti del Teatro Comunale etc. etc.[9]
Eugenetica urbana
La svendita produce effetti di «eugenetica urbana». Ogni anno mille residenti abbandonano (espulsi) il centro storico. E il Comune ci mette del suo proponendo all’imprenditoria immobiliarista sessanta appartamenti pubblici nella città storica. L’amministrazione comunale giustifica la vendita: “le case all’incanto non hanno i requisiti per divenire case popolari”. Eppure secondo la legge regionale le case sono già classificabili come ERP. Viene il sospetto che non siano tanto le case ad essere inadeguate ad ospitare classi popolari, quanto le classi popolari inadeguate per il quadro urbano prefigurato da Nardella & Co[10]. Sindaco che, ricordiamo, gioiva per i poteri conferitigli dal Daspo urbano – uno «stato di eccezione permanente» (Benjamin) nel governo della città –, affermando che era finalmente «Finita la stagione delle pistole ad acqua» (“Corriere fiorentino”, 11 febbraio 2017); la stagione però pare non essersi ancora conclusa, visto il recente provvedimento (lavaggio dei sagrati per impedirvi lo stazionamento dei turisti) in città già definito “pompa magna”.
Prospettive
Provo ad enucleare tre assi progettuali utili a risollevare le sorti della città: la leva dei beni comuni e il loro uso collettivo; il progetto locale sullo spazio pubblico; l’accoglimento della forza viva dei migranti.
Con l’esperienza della delibera Filangieri, a Napoli è stata messa in campo una possibilità concreta da perfezionare ed estendere alle altre città italiane. La delibera fa leva sulla categoria giuridica di “bene comune” e riconosce ad alcune esperienze autogestite di riappropriazione di edifici dismessi il «valore sociale di ambienti di sviluppo civico», e come tali le ritiene strategiche garantendo le condizioni di sopravvivenza alle microresistenze urbane.
Proprio mentre stiamo parlando, a Mondeggi si festeggiano i tre anni di presidio della tenuta messa in vendita dalla Città metropolitana, tre anni di custodia popolare delle terre e di sperimentazione collettiva di autogoverno. Si tratta di un progetto a scala locale che potrebbe essere declinato in chiave urbana, ad esempio alla scala rionale. Sul modello dell’autonomia municipalista, di rione, teorizzata da Murray Bookchin.
Esempi interessanti, tra gli altri, provengono da: “Facciamocispazio”, laboratorio rionale “dal basso”promosso da comitati e associazioni (Giardino San Jacopino, Leopolda Viva, ex FIAT Belfiore-Marcello, e Tutela dell’ex Manifattura Tabacchi); da inKiostro, luogo di «agibilità sociale» a disposizione per le realtà di movimento attive in un centro storico deprivato di spazi per momenti di incontro, confronto e lotta; o da La Polveriera Spazio Comune che, nell’ambito delle proprie attività in un ambiente dismesso dal DSU (agenzia per il diritto allo studio universitario), mette in relazione un quartiere del centro storico con le produzioni “genuine e clandestine” del contado e lavora per rafforzare l’alleanza città-campagna.
Poiché lo spazio pubblico è testimonianza e garanzia di vita civica, e ne rappresenta la possibilità di riproduzione nel futuro, l’alienazione degli immobili pubblici spossessa la cittadinanza di progettualità sul proprio ambiente di vita. Il progetto locale, urbano e rionale, farà leva dunque sulla presenza – ancora in mano pubblica – di grandi “contenitori storici” che, per localizzazione centrale, qualità architettonica e superficie, costituiscono l’importante occasione per un’intrapresa collettiva che dia vita ad alternative d’uso risolutive dei mali urbani sopra velocemente descritti. Tali immobili rappresentano inoltre la possibilità concreta di restituire all’uso cittadino edifici un tempo luogo del potere e dei soprusi: il palazzo, la caserma, il convento, il carcere, il manicomio. Molti dei quali, essendo edifici nati per la residenza collettiva, possono oggi essere convertiti in luoghi di accoglienza dei migranti e delle migliaia di persone che vivono il disagio abitativo. I rioni trarrebbero forza dalla presenza di questo nuovo afflusso di vita urbana.
Restituire disponibilità e funzioni collettive ai contenitori storici intra moenia contribuisce a restituire ai quartieri centrali quel carattere di promiscuità d’usi e di vissuti, che è il primo presidio contro la mercificazione e la desertificazione degli spazi urbani. Contro la monocoltura del lusso.
[1] Le relazioni tra estrattivismo e turismo nelle città d’arte sono state al centro di un nostro recente proficuo colloquio con Giacomo M. Salerno, svoltosi nell’ambito del dottorato di ricerca in Ingegneria dell’Architettura e dell’Urbanistica (La Sapienza, Roma).
[2] Raúl Zibechi, L’estrattivismo come cultura, “comune.info”, 31 ottobre 2016; Id., La nuova corsa all’oro Società estrattiviste e rapina, camminardomandando/Re:Common, 2016.
[3] Molto ne è stato scritto recentemente su quotidiani e riviste anche a seguito della pubblicazione di uno studio di ricercatori dell’Università di Siena (S. Picascia, A. Romano, M. Teobaldi, The airification of cities: making sense of the impact of peer to peer short term letting on urban functions and economy, “Proceedings of the Annual Congress of the Association of European Schools of Planning”, Lisbon 11-14 July 2017).
[4] Ernesto Ferrara, Case in centro ma ricavi per pochi. Così Airbnb ha invaso l’Italia, “la Repubblica”, 12 giugno 2017, che riprende i dati del succitato saggio di Picascia et al.
[5] Firenze “invasa” dai turisti, la fuga dei fiorentini: via in 20mila dal centro, “Corriere fiorentino”, 13 ottobre 2016.
[6] Su questi temi si veda la riflessione di carattere generale: Giorgio Grappi, Logistica, Ediesse, Roma, 2016. Qui il video della presentazione del libro, a cura di perUnaltracittà.
[7] Così in un filmato pubblicitario delle ferrovie statali, risalente al 2013.
[8] e.f., Avanti con lo “sblocca-edilizia”, “la Repubblica Firenze”, 1 giugno 2017.
[9] Rimando al mio Alienazioni a Firenze. O la metamorfosi dell’urbanistica in ragioneria, “La Città invisibile”, 17 febbraio 2017.
[10] Sempre in tema di alloggi popolari, il 2 marzo 2017 Nardella affermava ai microfoni di una radio locale che «Il vincolo dei 5 anni di residenza è troppo poco, bisogna aumentarlo. […] Vuoi avere un alloggio popolare? Bene, devi essere residente da almeno 10 anni in Italia». Avviandosi verso la sublime conclusione: «Tu, famiglia rom, non mandi il figlio a scuola, allora devi esseri punito e tra la punizione ti levo anche la casa. Non è una questione di razzismo, io combatto il razzismo, ma di civiltà» (cfr. Alessandro De Angeli, Le case impopolari/2 – I numeri di Nardella, ovvero Nardella dà i numeri, “La Città invisibile”, 10 aprile 2017; ma anche Nardella: «Troppi immigrati nelle case popolari. Il rischio è che si creino dei ghetti», “La Nazione”, 3 marzo 2017).