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Roberto Camagni
Il mistero del contributo straordinario
8 Febbraio 2019
Città e rendita
ArcipelagoMilano.org, 5 febbraio 2019. Una legge dello stato consentirebbe di recuperare parte della rendita da trasformazione urbana a vantaggio della collettività. Ma è completamente disattesa. (m.b.)

ArcipelagoMilano.org, 5 febbraio 2019. Una legge dello stato consentirebbe di recuperare parte della rendita da trasformazione urbana a vantaggio della collettività. Ma è completamente disattesa. (m.b.)

Gli oneri urbanistici, come è ben noto, costituiscono lo strumento più adeguato per la tassazione delle rendite emergenti dalla trasformazione urbana e per fornire ai comuni le risorse per il miglioramento delle città: essi vengono imposti nel luogo e nel tempo in cui la rendita di trasformazione si manifesta nonché sotto la diretta responsabilità e il controllo delle amministrazioni pubbliche. Purtroppo gli oneri pagati per prestazioni pubbliche in Italia rappresentano una quota quasi irrisoria delle rendite (fra il 3 e il 5% del valore del costruito, contro il 28-30% della Germania), e gli effetti si vedono bene: le trasformazioni arricchiscono le rendite ma lasciano sul terreno solo briciole per la collettività[1].

Fortunatamente, ma in modo inaspettato, una importante riforma degli oneri di urbanizzazione è stata introdotta nel nostro ordinamento con l’art. 17 del DL 12.9.2014 n. 133, cosiddetto “Sblocca Italia”, e integrata nel Testo Unico delle disposizioni in materia edilizia (DPR 6.6.2001 n. 380, art. 16(L) comma 4.d-ter): esso introduce, al di là degli oneri tradizionali per le urbanizzazioni, un “contributo straordinario” sul maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso (…) in misura non inferiore al 50%”[2]. Si tratta di una norma che finalmente e potenzialmente porta il paese nella schiera dei paesi avanzati e moderni, fortemente federalista e non ambigua. La critica che è stata mossa, di operare un aumento della già elevata tassazione generale o di infierire su un settore, quello edilizio, ancora toccato gravemente dalla crisi, non ha alcuna rilevanza economica: la disposizione opera su un “paradiso fiscale” moralmente illegittimo e iniquo rispetto ad altri settori produttivi e, quanto alla crisi – che è crisi di domanda e non di profittabilità del settore edilizio – essa anzi ne favorisce il superamento in quanto la tassazione viene utilizzata direttamente e totalmente per incrementare la domanda di opere pubbliche e infrastrutture, in un contesto che chiamerei win-win fra settore pubblico e privato.

Alcuni hanno poi subito rilevato che la materia urbanistica ed edilizia è soggetta alla potestà legislativa concorrente delle Regioni (che nel testo del DL viene esplicitamente menzionata) e dunque allo Stato resta solo la possibilità di esprimersi su principi fondamentali. Tuttavia appare del tutto lecito affermare che proprio di un principio generale si tratti, confermato dal fatto che la legge dice esplicitamente che le Regioni possono intervenire solo sul quantum della ripartizione p/p e sulle modalità di versamento e utilizzo del contributo[3]. In mancanza di leggi regionali successive alla legge nazionale, si applica quest’ultima (comma 4bis e 5 del TU).

Dobbiamo dunque considerarci soddisfatti? Purtroppo la risposta non è positiva. E non mi riferisco solo al fatto che molte possibilità esistono ancora di correggere la norma e di ridurre in sede di valutazione i veri plusvalori; ma mi riferisco al fatto che una legge nazionale di principi sia stata, a quasi cinque anni di distanza, quasi totalmente disattesa nella pratica legislativa e attuativa. Nei primi tre anni di vigenza delle legge, essa è stata completamente ignorata dalle Regioni e dalla grandissima maggioranza dei Comuni (oltre che, ed è quasi peggio, dalla nostra “cultura” urbanistica), mentre nel successivo biennio le Regioni l’hanno per la massima parte depotenziata se non disconosciuta con provvedimenti ai limiti – e a mio avviso oltre i limiti – della legalità.

Ho recentemente avviato una raccolta delle decisioni legislative e regolamentari delle Regioni, ancora da completare e verificare, con risultati del tutto sconfortanti. Elenco qui di seguito alcuni principali risultati. Ad oggi mi sembra che le sole regioni che hanno legiferato in modo (quasi) appropriato siano la Liguria (LR 15/2017, con la percentuale del 50%), le Marche (LR 17/2015)[4] e il Piemonte con delibera di Giunta 8 febbraio 2016[5]. La Regione Toscana, con la L.R. 65/2014 aggiornata nel 2017, all’art. 184 afferma: «Con deliberazione della Giunta regionale (…) vengono definite altresì le modalità di attuazione delle disposizioni introdotte con l’articolo 16 del d.p.r. 380/2001» ma non aggiunge alcuna disposizione attuativa. I Comuni sono lasciati soli: alcuni non recepiscono la legge nazionale, altri ci provano con buona volontà definendo criteri propri, altri ancora vanno in senso contrario riducendo gli oneri attuali (Empoli). Un comportamento bizzarro e ambiguo. La Regione Umbria (L. R. 1/2015) cita un contributo straordinario (non quello della legge nazionale), ma lo lega, al di là di ogni immaginazione, alla “adesione volontaria da parte del proprietario alla applicazione di norme premiali”.

Indubitabilmente i peggiori comportamenti sono quelli di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Il Veneto, che comunque possiede un istituto abbastanza simile come il “prelievo perequativo”, dopo aver invano impugnato la norma statale di fronte alla Consulta per violazione delle competenze regionali[6], non ha mai legiferato in materia, lasciando l’incombenza a un pugno di comuni volenterosi. La Regione Lombardia con la LR 12/2005, aggiornata fino al 2017, non ha legiferato ma si è posta palesemente contra legem mantenendo, all’art. 103 comma 1, la dizione: «A seguito dell’entrata in vigore della presente legge cessa di avere diretta applicazione nella Regione la disciplina di dettaglio prevista: a) dagli articoli 4, 5,… 16, … del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380». Una norma palesemente illegittima. E il Comune di Milano si guarda bene dal seguire, come dovuto, la legge nazionale.

La Regione Emilia-Romagna, con la nuova legge urbanistica del dicembre 2017, si rimangia una sua circolare favorevole del 2014 e all’art. 8c1a afferma: «Il contributo straordinario di cui all’art. 16 …. non trova applicazione all’interno del territorio urbanizzato …». Seguono tre pagine di incentivi, sconti sugli standard, premialità volumetriche, riduzione «fino alla completa esenzione» di contributi di costruzione, assegnazione in diritto di superficie di aree pubbliche, abolizione di limiti di densità e di altezza, .…! Il tutto mi pare illegittimo, ridicolo e irresponsabile nei confronti della finanza locale.
Trovo queste posizioni, assecondate dal silenzio della cultura, inquietanti a voler essere minimalisti.

Mentre si moltiplicano le proposte di esperti e istituzioni a favore di una strategia opposta, di riduzione degli oneri per finalità di rilancio edilizio – proposte errate come ho già detto, ma anche totalmente inefficaci per la dimensione già omeopatica degli oneri attuali – si lasciano illanguidire le risorse pubbliche locali e con esse le possibilità di rilancio delle nostre città; e lo si fa disattendendo una legge nazionale e ponendosi, come amministratori, in una posizione oggettiva di procurato “danno erariale”.

Note

  1. Uno studio recente dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia ci indica che nel periodo 1950-2012 più di 2/3 dell’aumento del valore reale delle abitazioni è rappresentato dall’aumento del prezzo dei terreni, una percentuale che addirittura sale notevolmente nelle città maggiori.
  2. “L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale (…) in relazione (…) alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso. Tale maggior valore, calcolato dall’amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest’ultima al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l’interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l’intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche.”
  3. La stessa ANCE in una nota del marzo 2016 sul “contributo straordinario” afferma che “la possibilità di poter escludere totalmente la corresponsione di tale contributo non sembrerebbe ammessa”.
  4. Fra le novità del TU sull’Edilizia cui si riferisce, la LR non nomina il contributo straordinario né gli oneri, ma all’art. 3 afferma: «Per quanto non previsto, si applica la normativa statale vigente». Strano modo di acquisire.
  5. La delibera afferma anche che «in sede negoziale potrà essere prevista, quale alternativa al versamento finanziario, la cessione di aree o immobili», prevista dalla legge nazionale. Ma è chiaro che la cessione di aree non colpisce la rendita se i volumi edificabili restano uguali!
  6. Sentenza 68/2016. Si veda anche la conferma nel merito della legge nella sentenza della Consulta 209/2017, nonché nelle sentenze del Consiglio di Stato 4545 del 2010 sul caso pionieristico di Roma e del Tar del Veneto n. 692 del 2017.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.

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