La Repubblica, 23 gennaio 2016
Sul ruolo della storia nella vita di una nazione è tutta da leggere la conversazione di Obama con la grande scrittrice Marilynne Robinson (premio Pulitzer 2005), pubblicata dalla New York Review of Books. Dialogando con il Presidente, Robinson si chiede se l’America possa ancora dirsi una democrazia, intesa come «la conseguenza logica e inevitabile di un umanesimo religioso al più alto livello, da applicarsi all’immagine umana in quanto tale e al rispetto che le si deve». È qui che Obama parla di “amnesia americana”, contrapponendola alla memoria lunga di civiltà dove antichi eventi, come il contrasto fra sciiti e sunniti, provocano ancora feroci contrasti. «Noi americani dimentichiamo quel che è successo due settimane fa — continua Obama, incalzato da Robertson — Ma sono convinto che per incoraggiare la creatività è essenziale insegnare la storia ai nostri ragazzi», tanto più che «tenere in vita una democrazia comporta sangue, sudore e lacrime», e non una visione falsamente pacificata.
Quel che la scuola americana fa ora è l’opposto, risponde Robinson: «Stiamo dicendo alla gente che non troveranno lavoro a meno che non acquisiscano anonime competenze tecnologiche, e con questo linguaggio coercitivo stiamo dicendo alla gente che le loro vite sono fragili, alla mercé di una generica paura che impedisce ogni senso di sicurezza », e dunque ogni creatività.
Questa conversazione fra un Presidente e un’intellettuale che promuove la storia in nome della democrazia, della creatività e della felicità dei cittadini è (temo) impensabile in un’Italia dove segmentate “competenze” la vincono sulla conoscenza, dove gli slogan (“buona scuola”) sfrattano lo spirito critico, dove scuola e università puntano sempre meno a educare cittadini e sempre più a formare un’anonima forza-lavoro. È in questo quadro, in cui andiamo scopiazzando un’America che ha già avviato una qualche autocritica, che si va diffondendo come una peste il pregiudizio che gli studi umanistici vadano cestinati come inutili; e che intanto i migliori laureati delle nostre università (umanisti e no), dopo una formazione a nostre spese, emigrano a decine di migliaia.
Ma qual è la funzione degli intellettuali (di chi si ferma a pensare) in un mondo dominato dalla faciloneria e dall’amnesia? Proprio per questo, abbiamo sempre più bisogno di quei «mercanti di luce, che da ogni nazione ricavano il meglio, i libri, le idee, gli esperimenti, le memorie, i modelli di comportamento, e li trasportano in patria» (Francis Bacon). Chi pratica la storia e le scienze umane è davvero un «mercante di luce » che illumina il presente con idee per costruire il futuro. Ha ragione Marilynne Robinson: o la scuola è il microcosmo della democrazia, o non è. Vale in America, vale in Europa. Varrà in Italia?