Ma procediamo. Secondo argomento. “A pensar male, il primo sottinteso [del testo dei costituzionalisti] pare una rivalsa, condita di un certo disprezzo, verso Renzi-il-plebeo, uno che parla in maniera approssimativa e irruente, che schifa (sic) i tecnici e ancor di più i professoroni, i loro convegni e le loro tartine. Non li invita a cena, non li promuove a ruoli importanti, se può ne fa volentieri a meno. O verso la Boschi-così-leggera, una neo-laureata senza nemmeno un dottorato di ricerca in diritto pubblico che, ciononostante, non ha sentito il bisogno di convocare un concilio di emeriti prima di proferire verbo sulla materia”.
Terzo argomento. “ [Nel documento dei 56] non c’è nessuna preoccupazione verso la possente ondata di riprovazione popolare di cui sono oggi oggetto la politica e le istituzioni…Dal documento non traspare la minima sensibilità verso il contesto in cui la riforma è maturata e verso gli effetti di una bocciatura basata sulla ricerca di un ottimo metafisico che pare nemico assoluto del bene per i contemporanei”.
Fra il primo e il secondo argomento, a panino come l’opposizione nei Tg di regime, i due politologi entrano approssimativamente nel merito del documento dei costituzionalisti, a difesa della riforma Boschi. Ma con ogni evidenza il punto non è il merito, nemmeno per una alquanto ossessiva appassionata della materia come, per quel nulla che conta, la sottoscritta. C’è un livello infatti che viene prima perfino della Costituzione e di qualunque legge fondamentale, ed è il livello dello scambio fra i comuni parlanti e della produzione di senso comune che ne deriva. Quando si inquina o si frattura questo livello, non è in questione la Costituzione ma la qualità della convivenza. Ed è a questo livello che il testo della coppia Gualmini-Vassallo si colloca e va letto.
Nel suo blog sull’Espresso, Marco Damilano, a sua volta colpito dall’obliqua sintomaticità dell’articolo, lo interpreta come la prova provata dell’assenza di una nuova leva di intellettuali renziani: “intellettuali veri, capaci cioè di indicare un punto di vista non scontato, con un certo tasso di anticonformismo, con il gusto di restare fuori dalle curve, dalle tifoserie da social network, dal talk-show perenne”. Mi piacerebbe dargli ragione, ma non sono d’accordo. L’articolo in questione è al contrario la prova provata che questa nuova leva intellettuale renziana c’è ed è questa, nella sua desolante miseria.
I tre argomenti di cui sopra sono infatti una mirabile sintesi dei veleni che la cosiddetta narrazione renziana, in realtà una vera e propria ideologia, ha fin qui distillato e instillato nel senso comune. E si possono sintetizzare come segue.
Primo, la guerra generazionale come motore cinico della produzione di un consenso rancoroso. Com’era chiaro fin dall’inizio, in questione non è mai stata solo la “rottamazione” di un ceto politico usurato, bensì la produzione programmatica di barriere generazionali che legittimano politiche economiche devastanti per il legame sociale, mettendo continuamente in conflitto vecchi e giovani, pensionati (o pre-pensionati forzati o pensionandi) e precari a vita, occupati e disoccupati, titolari di diritti acquisiti e soggetti deprivati di ogni diritto. La produzione altrettanto sistematica di rancore nelle generazioni giovani verso quelle precedenti, unita alla instillazione di un senso di colpa connesso all’età nelle generazioni “decadenti”, è il collante sentimentale di queste barriere, che ostacolano la riorganizzazione del conflitto sociale su una base di classe o lungo altre frontiere antagonistiche sensate, e promuovono una competizione individuale generalizzata, legittimata come una lotta per la sopravvivenza che giustifica l’annichilimento altrui. Si tratta dunque di una precisa strategia neoliberale con risvolti di darwinismo sociale, coperta da un arrembaggio giovanilistico rottamatorio che in un paese come gli Stati uniti, sbandierato a proposito e a sproposito dai “nuovi intellettuali” come faro progressista, sarebbe accusato senza mezzi termini di age discrimination (e, per inciso, sbarrerebbe qualunque carriera accademica a chiunque se ne facesse portatore).
Secondo, la rivendicazione dell’anti-intellettualismo fascistoide già caratteristico del ventennio berlusconiano, ma oggi, se possibile, ancor più ostentato, e soprattutto più infondato di allora. La retorica è la stessa – il tycoon spregiudicato contro i “salotti buoni” del capitalismo allora, il “plebeo” contro i “professori al caviale” oggi -, ma a differenza di ieri, quando si appoggiava su un’impresa come quella berlusconiana che aveva effettivamente rivoluzionato i modi della produzione intellettuale, oggi non si basa su niente, se non su un’arroganza che non ha precedenti nemmeno nel ceto politico berlusconiano. Anche qui, nulla di innocente e nemmeno di innocuo: l’anti-intellettualismo di regime produce e promuove, con l’aiuto consistente ed entusiasta dei media di regime, un ceto intellettuale in parte nuovo, in parte riciclato dal ventennio precedente (vedi la mappa del management che conta nella Rai e in altri ruoli chiave dell’industria culturale disegnata il 27/4 sul Foglio da quell’altra musa ispiratrice del renzismo che è Claudio Cerasa per dimostrare come qualmente “Berlusconi, anno domini 2016, ha comunque vinto e sta vincendo alla grande”).
Terzo, l’accodamento supino, e dichiarato, agli umori sociali come fonte e misura dell’azione di governo. E a quanto pare, anche dell’azione di riforma della Costituzione. Che dovrebbe essere precisamente la norma fondamentale che prescinde dall’aria che tira. Invece no, spiegano Gualmini e Vassallo, la deve seguire. E qui lo studente di primo anno, che i due politologi invocano come bocciatore certo del documento dei 56, boccerebbe invece di sicuro loro. E farebbe bene.