Chissà se chi ha promosso e votato il provvedimento che condanna per i "negazionisti", cioè per chi nega i genocidi commessi nel passato (cui si riferisce l'articolo di Melloni), si rende conto che attualmente avviene un genocidio di dimensioni ancora più vaste? La Repubblica
, 9 maggio 2016
Non è una questione di isterie accademiche, anche se queste vi sguazzano. Non sono sottigliezze epistemologiche, anche se vi sono implicate. Non è un problema del solo occidente europeo, anche se rimbomba forte nella sua coscienza. È una metamorfosi culturale profonda che si misura col “male” da cui nasce la nostra cultura e ne cambia il destino, invertendo le polarità intellettuali fra storia e memoria, con conseguenze che ci segnano tutti e che affiorano anche nei dibattiti tedeschi sul genocidio armeno e nel nostro dibattito sulla legge contro il negazionismo, approvata ieri dalla Camera, che punisce con il carcere da 2 a 6 anni.
Quel tipo di conoscenza del passato moderna che noi chiamiamo “storia” è figlia di una tradizione millenaria di esplorazione del passato, ma non di meno della secolarizzazione della “teodicea”. Dalla metà del secolo XVIII anziché chieder conto a Dio del male del mondo in un processo a cui Leibniz diede quel nome (teodicea), abbiamo imparato a chiedercene conto, in un processo fra noi umani di cui la “storia” è parte. Davanti al suo tribunale le tecniche degli avvocati di Dio che dovevano mandarlo assolto rispetto al capo d’accusa coniato già da Boezio (“Si Deus unde malum?”), diventano paradigmi storiografici che frammentano la domanda radicale sul “cos’è” dell’essere umano e sulla irreparabilità del male di cui si rende responsabile.
Bene. Questa conoscenza aveva imparato a difendersi dal potere e dalla sua richiesta ossessiva di legittimazione: e s’è invece mostrata aperta, come notava già René Remond sul finire del Novecento, alla richiesta prepotente di diventare il luogo dove si fa giustizia dei torti del mondo, del silenzio dei cancellati. Lì ha guadagnato visibilità, antagonismo con l’autorità: ma ha dato corda alla sua più insidiosa concorrente che è la “memoria”.
Non la memoria biblica dello “zaqhòr”: quella che comanda di pungere l’indifferenza che rende schiavi rivivendo il percorso di liberazione. Non la memoria “immaginativa” degli
Esercizi di sant’ Ignazio, che costringe ad affrontare i fantasmi dell’auto-carcerazione dell’io, passeggiando nel vangelo come su un set. Ma la memoria normata, quella definita dalle Leggi e regolata dalla politica: la memoria che fa votare al Bundestag (assente la Cancelliera Merkel al momento del voto) una legge contro il negazionismo del genocidio armeno, quello il cui oblio era usato da Hitler per avvalorare la pianificazione della Shoah; la memoria che fa votare al Senato italiano una legge per punire il negazionismo, come se vietare l’assurdo avesse un senso.
Questa memoria, come forma di legittimazione etica della collettività, s’è impossessata dello spazio pubblico: ha surclassato “l’uso pubblico della storia” e ha generato “l’uso pubblico” di sé medesima. Viene celebrata secolarizzando l’antica metrica della liturgia. Produce feste della memoria, sospensioni della memoria, eruzioni della memoria, festival della memoria. Fissa prescrizioni rituali, determina l’umore dei bambini, i palinsesti delle televisioni, le spese della fiction, gli obiettivi formativi delle scuole.
Nello spazio pubblico del primo Novecento, infatti, c’era una separazione fra storia e memoria che assegnava a ciascuna i propri luoghi. I “luoghi della memoria” avevano punteggiato l’Europa del primo dopoguerra, disseminando di cippi ed elenchi dei poveracci mandati a diventare carne da cannone in tutto il continente. Ma questa occupazione, passibile di usi ideologici infiammabili, aveva come contrappeso un altro spazio: quello altrettanto vasto fatto di menti e culture, a disposizione di una casta di storici, capace di aprire le menti con una conoscenza ritenuta essenziale. Anzi: proprio lo sbiadire della memoria, sotto le ingiurie del tempo e dei piccioni, rendeva fisico l’accumulo di “distanza storica”: e lì si inseriva un lavoro scientifico di cui si nutrivano (si “dovevano” nutrire) le classi dirigenti per essere tali.
Ancora nel secondo dopoguerra era questo snodo storiografico “lo” snodo di tutto. Talché si poteva dire che la Shoah diventa tema politico quando lo storico Jules Isaac ne parla a papa Giovanni XXIII o quando Raul Hilberg fa il suo dottorato sulla distruzione dell’ebraismo europeo creando un volume che i leader politici del mondo bipolare dovevano o conoscere o citare. Poi il meccanismo s’è inceppato. È lì, verso la fine della guerra fredda, che la domanda di storia si è contratta e l’offerta di storia è risultata inadeguata sul piano qualitativo e quantitativo.
La cultura storica, quella che ha impregnato la mentalità dei ceti europei di governo del secondo Novecento, quella che è stata egemone nel pensiero dei ricostruttori dell’Europa, è stata rimpiazzata da una gnosi econometrica. La lingua franca non è quella del realismo storico, ma di un moralismo che attribuisce alla opinione pubblica il ruolo delle “tricoteuses” ritratte Charles Dickens, che fanno la maglia mentre la ghigliottina mediatica lavora.
Anche per questo è cresciuto il mito della memoria, che ci somministra in date fisse, brandelli di dolore in cerca d’autore. Al poco di “verità” che volta a volta la ricerca storica afferra, s’è sostituita la dosatura della modica quantità di “colpa” che gli umani possono sopportare e la sua distribuzione per legge. Leggi che obbligano a non negare il male commesso, ma di cui la memoria sbiadisce l’analisi e fino a fissare come dose minima la non-negazione della sua esistenza.
In questo ambito è esemplare il caso italiano. La Legge della memoria del 2001 prende come data simbolo quella della liberazione di Auschwitz, e non quella delle nostre leggi razziali. Ricorda le vittime della Shoah – ebrei e zingari per l’Italia – insieme agli internati militari italiani che finirono in campo di concentramento dopo l’8 settembre e agli altri perseguitati in senso generico, ma esclude questi ultimi dai riti civili del 27 gennaio per evidente incomponibilità fra le misure etiche delle vicende. Non dice mai la parola “fascismo” nella legge della memoria: perché allora la unanimità parlamentare giustamente desiderata fu pagata a un prezzo etico esorbitante. E poi quella legge è stata affiancata nel 2004, dalla legge sulle vittime delle foibe: con un atto che sembrava voler “bilanciare” due tragedie e la loro sostanza umana in una impensabile par condicio.
In attesa che la memoria ritrovi nel sapere un argine e un farmaco, il passato diventa un solaio delle metafore, un bisturi arrugginito dall’erudizione, con cui non si possono incidere i bubboni della vita comune: in attesa che un nuovo “male” ci liberi dalla falsa alternativa fra “Funes el memorióso” di Borges e Auguste Deter, la prima paziente di Alois Alzheimer, e ci obblighi a tornare al sapere del dettaglio in cui s’annida la responsabilità.