Ieri la chiesa cattolica europea ha sentito la fitta di quello sperone conficcarsi nella sua carne viva. La presenza alla eucarestia dei musulmani, per il martirio di padre Hamal, è stata infatti un “pungolo” che chiama la chiesa alla conversione. È stato favorito dalla tempestività con cui papa Francesco, fedele al protocollo vaticano in vigore dall’11 settembre, non ha concesso il riconoscimento politico di guerra “dell’islam” al terrorismo: dalla chiarezza con cui alla Gmg ha ripetuto il no all’odio che, come osservava ieri Eugenio Scalfari, è un no al potere, anche religioso.
Eppure la presenza islamica nelle chiese è stata un gesto spiazzante dal quale non pochi cattolici hanno cercato di “difendersi”. C’è chi paternalisticamente l’ha ridotto, ad un “buon inizio” e ha lodato i musulmani “moderati” (a proposito: quando smetteremo di regalare il nobile titolo di “radicali” ai tagliagole e chiameremo “musulmano” ogni musulmano che prega, e “sanguinario islamista” ogni musulmano che uccide?). C’è chi s’è premurato di precisare che non si trattava di una “preghiera comune”, se mai evocando la distinzione di età ratzingeriana fra “pregare insieme” e “pregare simultaneamente”. Si è provato a sottovalutare la difficoltà di uno “sforzo ascetico” (quello che nel Corano è definito il “jihad”, con un’altra parola che l’inverno della nostra ignoranza usa al femminile perché lo traduce “guerra”) e si sono dimenticate molte presenze locali in passato.
Anche i cattolici hanno subito pigramente la vera offensiva del Regista dell’Isis (perché c’è un Regista): che vuol abituarci a distinguere attentato da attentato, a sentire diversamente gli uccisi nostri e loro, attraverso gli attacchi ai luoghi della vita comune, come fu alla Stazione di Bologna.
Pigrizia spirituale: perché in teoria lo sanno tutti. La fraternità non nasce quando si pongono condizioni alla relazione, ma quando nella prova qualcuno dice “sono qui con te”. Lo sanno le comunità ebraiche, che, ogni volta che il terrorismo ne ha colpito una, hanno sentito più “spiegazioni” giustificatorie e antisemite che fraternità vere. Ora lo sanno i cristiani, che hanno visto sparire intere comunità e chiese, mentre il conservatorismo pantofolaio domandava la crociata e la chiusura delle frontiere. Lo sanno i musulmani che da quasi quarant’anni vedono la guerra dell’ex impero Ottomano cambiar nome, ma permanere.
Finora non era accaduto che una comunità venisse a dire a un’altra comunità, più vasta e riconosciuta, “sono qui con te”: per abitare la stessa libertà e chiedere nella preghiera la stessa cosa che chiedi l’altro. Che l’iniziativa sia stata presa da musulmani promette bene per l’Europa (e male per il Regista): dimostra che la libertà religiosa che questo continente ha conquistato superando le guerre di religione, le guerre di irreligione, le guerre mondiali — questa libertà fa bene a chi la vive ed è più sicura degli screening discriminatori. Non rende i credenti non meno credenti, ma credenti migliori.
Che dunque si possono misurare con la sfida teologica, che Francesco ha posto anche in questi giorni. I cristiani delle diverse chiese, un tempo nemici e carnefici gli uni degli altri, riconoscono ora che c’è un “ecumenismo del sangue”, in cui l’unità nasce dalla persecuzione ed è stata compresa grazie ad un difficile lavoro storico-teologico. Al terrorismo che sparge il sangue di credenti e non credenti bisogna dare la stessa risposta: forse creando un gesto liturgico comune più impegnativo dello “spirito di Assisi”.
C’è una “fraternità nelle vittime”, una alleanza in Abele, che nasce non se si dice “tutti i morti sono eguali”, ma quando i credenti comprendono il martirio dell’altro. In una campagna terroristica a cui neghiamo il titolo di “guerra di religione”, non ci servono religioni che sappiano “fare pace”: pace fra le culture, mettendo in gioco la fede nel Dio unico, interrogandolo, sentendone il pungolo.