ILa Repubblica, 19 ottobre 2016
Esistono ragioni dell’individuo non appellabili: se si vuole rischiare la vita lanciandosi da un cocuzzolo con una tuta alare si ha il diritto di farlo (ne sono morti tanti anche salendo, sulle Alpi, e nessuno si è sognato di vietare l’alpinismo). Ma dalla bella inchiesta di Giampaolo Visetti sui jumper estremi emerge qualcosa di diverso e nuovo rispetto alle tante tradizionali maniere di rischiare la pelle per provare un’emozione forte.
Questo qualcosa di diverso e nuovo è riassunto alla perfezione da queste parole del jumper Di Palma: «Se non ci fossero i social, il 90 per cento di noi farebbe altro». Ovvero: ci si lancia solo a patto che questa esperienza estrema (e solitaria) possa avere un pubblico. Solo se la webcam è accesa. Qualcuno poi compone le spoglie e recupera la webcam. Le morti in diretta dei jumper (37 solo quest’anno) hanno milioni di visualizzazioni; lo sanno bene gli inserzionisti pubblicitari. Ma il cinismo pubblicitario non è certo una novità, mister Barnum lo conosceva bene già nell’Ottocento; e neppure l’eccitato voyeurismo di noi pubblico lo è.
La novità è la perdita di senso dell’esperienza individuale (che fu il vero scopo dell’alpinismo classico) al di fuori della sua condivisione pubblica. O tutti vedono quello che sto facendo, o è come se non lo facessi. La chiamerei: dittatura degli altri, o allocrazia. Il supremo lusso futuro in tema di libertà sarà fare qualcosa solo per se stessi, badando bene che nessuno lo sappia.