La Repubblica, 22 ottobre 2016 (c.m.c.)
Il concetto di libertà nasce in Grecia in ambito politico. Una delle prime testimonianze al riguardo non proviene dalla filosofia ma dalla letteratura, precisamente dal più antico dei tragici, Eschilo, nella sua opera I Persiani.
A Susa, capitale dell’impero, la regina Atossa, sposa del precedente imperatore Dario e madre del nuovo imperatore Serse, attende in preda a cattivi presagi il ritorno della spedizione militare del figlio contro la Grecia e per vincere l’attesa snervante chiede notizie sui nemici: se hanno un esercito forte, se posseggono ricchezze, se sono bravi con l’arco. Infine pone la domanda cruciale: «Chi è il loro padrone?. Le viene data la seguente risposta: «Si vantano di non essere schiavi di nessun uomo, sudditi di nessuno». Con queste parole di Eschilo risalenti al 472 a.C. si inaugura in Occidente il concetto di libertà.
Eschilo però nelle sue opere presenta il più delle volte una concezione del mondo opposta, cioè all’insegna della necessità: per esempio nei Persiani dice che Ate (la figlia di Zeus che personifica l’accecamento che induce all’errore) «spinge il mortale dentro la rete ben tesa»; oppure che «necessità costringe i mortali a sopportare sciagure»; oppure ancora che «chi diede inizio a tutto quel disastro fu la vendetta divina che non perdona, o un demone malvagio venuto da chissà dove»; nell’Agamennone menziona «le potenze divine che prepotenti governano il sacro timone del cosmo»; nelle Coefore scrive che «dobbiamo venerare il potere divino che il cielo governa».
Per Eschilo quindi gli esseri umani non sono liberi nel senso di indipendenti da potenze superiori, ma al contrario sottostanno a potenze più grandi a cui dover rendere conto, a un «giogo di necessità» che sempre giudica, e spesso anche determina, il loro agire.
E tuttavia egli dichiara che il suo popolo non volle sottostare alla potenza di gran lunga superiore dell’impero persiano che intendeva imporsi nel nome della cieca necessità della forza, e quanto a costituzione politica descrive i greci come uomini liberi, «sudditi di nessuno», oltre a essere consapevole del fatto che il dover sottostare a potenze più grandi non priva gli esseri umani del merito quando agiscono bene e della colpa quando agiscono male, come nei Persiani appare dalla differenza tra il saggio imperatore Dario e lo stolto figlio Serse.
Il giogo della necessità non preclude quindi la responsabilità personale, la possibilità di rispondere alle circostanze in prima persona in un modo oppure in un altro, non preclude cioè la libertà. La contraddizione rilevata in Eschilo manifesta la classica opposizione di necessità e libertà, antica quanto il pensiero e riassumibile in questa alternativa: — il mondo è un processo necessario e logico, e di conseguenza anche privo di libertà; — il mondo è un processo libero e creativo, e di conseguenza anche privo di un disegno logico e sensato. I filosofi si dividono tra chi assegna il primato alla necessità e al senso, e chi invece alla libertà e al non-senso.
Le cose peraltro si complicano ulteriormente se prendiamo in considerazione la fisica contemporanea. Qui i grandi fisici, che per natura devono essere anche un po’ filosofi, come i grandi filosofi devono essere un po’ fisici, si dividono: al campo della necessità appartiene Einstein con la teoria della relatività, al campo della libertà appartiene Bohr con la meccanica quantistica. La teoria della relatività riguarda lo spazio-tempo, l’energia e la gravitazione, le stelle e le galassie; la meccanica quantistica riguarda il comportamento degli atomi e delle particelle subatomiche. La prima regna nell’infinitamente grande, la seconda nell’infinitamente piccolo.
Fu probabilmente osservando tutto ciò che uno dei principali protagonisti della meccanica quantistica, il fisico danese Niels Bohr, giunse ad affermare con grande saggezza e lucidità: «Ci sono due tipi di verità: le verità semplici, dove gli opposti sono chiaramente assurdi, e le verità profonde, riconoscibili dal fatto che l’opposto è a sua volta una profonda verità». Ci troviamo cosi di fronte non a due vie, di cui una è vera e l’altra falsa, ma a una condizione strutturale della mente nel suo rapportarsi all’essere.
E come la meccanica quantistica e la teoria della relatività, pur non essendo conciliabili tra loro, sono entrambe vere nel senso che entrambe descrivono adeguatamente la realtà, cosi, allo stesso modo, i concetti di libertà e di necessità, pur non essendo teoreticamente conciliabili tra loro, interpretano entrambi una dimensione della realtà in modo veritiero.
Emerge da qui l’esigenza di una prospettiva di pensiero che sappia cogliere tale doppia ragione, sapendo sostenere al contempo sia la sensatezza e la logicità dell’essere, perché, come affermava Einstein, «Dio non gioca a dadi con il mondo», sia la contingenza e la mancanza di un disegno lineare, perché, come affermava Eraclito, «il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi».