Un esperto della fragilità delle nostre terre e di cò che va fatto per ridurne i rischi critica il chiacchiericcio delle proposte mainstream e indica le vie della saggezza e dell'esperienza. Associazione Bianchi Bandinelli online 9 settembre 2016
Ancora una volta, dopo la tragedia di Amatrice, la TV e la rete sono sommerse di dichiarazioni del giorno dopo da parte di autorevoli fonti del governo e della politica sull’intenzione di mandare a definitiva soluzione il problema del “rischio simico”. Di fronte al piglio risoluto, decisionista, ormai consueto, con cui è proposto l’impegno, i cittadini sparsi lungo la penisola – ai quali l’ultimo disastro ha ricordato che dalle loro parti il terremoto tira – non possono che aprire una partita di credito.
Ennesime delusioni? Probabilmente sì se si dovesse dar retta ai primi spartiti suonati sugli organi d’informazione: il libretto del fabbricato e il programma Casa Italia al quale un numero imprecisato di generazioni si dovrà dedicare per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio italiano, ma anche affrontare il problema delle periferie, degli impianti sportivi e del risparmio energetico.
Per rendere meno catastrofici i terremoti che verranno si ritiene sufficiente promettere un po’ di soldi all’anno per tanti anni da spalmare su tutto il territorio nazionale e su un coacervo di temi. Soldi che le regioni si divideranno, che poi ciascuna distribuirà tra i comuni e qualche altro centro di spesa. Finanziamenti della cui stringente finalizzazione nessuno sarà più davvero consapevole, così come nessuno sarà responsabile del loro monitoraggio e controllo.
Ogni terremoto, ogni emergenza, ogni ricostruzione ha impartito una lezione di cui chi ha governato avrebbe dovuto tener conto, con la forza e la determinazione necessaria. Dal Belice nel ’68 fino alla scossa del 24 agosto, con in mezzo il Friuli, l’Irpinia, l’Umbria-Marche, San Giuliano, L’Aquila, l’Emilia e tanti altri eventi solo un po’ meno severi, sono stati spesi 150 miliardi di Euro per ricostruire e, soprattutto, è stato pagato un altissimo tributo di vite umane.
Nei giorni luttuosi di Amatrice, Accumoli e Arquata, si è detto di tutto sulla necessità di trovare una soluzione alla irrisolta fragilità di case, scuole, caserme, strade, chiese, ospedali; ma da quelle parti, dove si sapeva davvero bene che il terremoto tira, sembra che nessuno si sia posto, almeno dopo L’Aquila distrutta nel 2009, il problema di individuare quante e quali criticità sarebbero drammaticamente emerse se un terremoto simile a quelli del passato si fosse ripetuto; e nemmeno che distanza vi fosse in quei luoghi dai livelli di accettabilità del rischio, e non solo per la violenza della scossa ma piuttosto per la irrisolta estrema vulnerabilità di case, scuole, ospedali, fabbriche, caserme, chiese e ponti.
Allora bisogna chiedersi perché, dopo tante promesse formulate e mai mantenute, non sia possibile, il giorno dopo, parlare di inevitabili perdite piuttosto che di inaccettabile strage. Il patrimonio edilizio si è dimostrato fragilissimo; la lunghissima applicazione della normativa sismica non ha dato quel che non poteva dare, ovvero la protezione dei centri storici, ma non ha nemmeno conseguito il risultato atteso: la protezione della vita umana negli edifici più recenti o sui quali si era recentemente intervenuti per migliorarli.
Le macerie di Amatrice, tuttavia, mostrano anche l’inefficacia degli altri strumenti di protezione messi in campo negli ultimi decenni, che stentano a raggiungere il loro obiettivo: la concessione di incentivi per la riduzione della vulnerabilità delle abitazioni, gli interventi sugli edifici strategici e sensibili, e poi l’irrisolta fragilità delle infrastrutture di collegamento viario essenziali in emergenza. Insomma, una sconfitta completa. Le analisi e le indagini che saranno fatte, anche dalla magistratura, spiegheranno perché tutto questo è successo. Dimostreranno probabilmente che la responsabilità non è della qualità degli strumenti messi in campo ma piuttosto del come sono stati utilizzati o del perché non sono stati utilizzati.
Ma la sostanza del problema, a fronte del fatto che l’inefficacia di quegli strumenti non è episodica ma sistematica, non cambia di molto: il paese resta enormemente vulnerabile, incapace di assorbire l’impatto di terremoti che si possono ripetere in alcune aree con intensità anche superiori di quella registrata a L’Aquila o ad Amatrice. C’è un enorme squilibrio tra la limitatezza delle risorse che possono essere impegnate e quelle necessarie per ridurre il rischio a cui sono esposte le popolazioni, i beni e il patrimonio storico, artistico e culturale del paese.
Sembra proprio il caso di sottoporre la strategia di riduzione del rischio sismico (ammesso che se ne sia mai perseguita una) a una verifica, e chiedersi se non si possa fare anche qualcosa di più e magari di diverso. Essendovi una certa urgenza, tenuto conto della frequenza con cui i terremoti distruttivi si manifestano, se i soldi sono pochi e le esigenze tante, il buon senso suggerirebbe di utilizzarli dove il rischio è maggiore. Più che continuare con logiche d’intervento su tutto il territorio nazionale, a pioggia, affinché tutti abbiano la loro parte, sarebbe consigliabile farsi guidare da scienza e conoscenza, operare delle scelte a costo di correre il rischio di non centrare sempre il risultato, ma con maggiori garanzie di non sprecare risorse. D’altronde quello di fare delle scelte, di assumersi responsabilità, è il compito di chi governa. Nelle strategie di riduzione dei tanti rischi che incidono su una comunità, in base alla loro dimensione, frequenza ed incidenza, è necessario scegliere come distribuire le poche risorse rispetto alle tante esigenze.
Ciò che è emerso nel dibattito post Amatrice è la riproposizione di interventi a tutto campo e, tra questi, anche un po’ di prevenzione sismica di durata secolare, confidando nella continuità dell’azione politico-amministrativa, senza considerare che nel frattempo un terremoto distruttivo ogni 5-6 anni colpirà il paese, (quasi) certamente dove è già passato. In due generazioni o in settanta anni ci saranno probabilmente una mezza dozzina di forti terremoti. Quando capiteranno qualcuno dirà agli impauriti cittadini superstiti che l’azione di prevenzione avviata dopo il lontano terremoto del 2016 ad Amatrice continua indefessa e che prima o poi il paese sarà salvo.
Lo Stato centrale, i governi che si succederanno, reperite le risorse riterranno di aver assolto alle proprie responsabilità. Spesso a voler promettere troppo si rischia di non ottenere nulla. Il piano Casa Italia che ha preso forma nei salotti buoni televisivi è certamente troppo ambizioso se confrontato con le dimensioni e la natura dei temi che si vogliono risolvere; troppo semplice ritenere che sia sufficiente diluire nel tempo un intervento molto complicato; ma anche troppo facile rispetto ai livelli di responsabilità che ci si deve assumere di fronte al ripetersi di eventi a carattere catastrofico. Se ritornano alla mente le parole del presidente Mattarella oggi, ma anche e soprattutto a quelle di Pertini ai tempi dell’Irpinia, si percepisce l’invito allo Stato, ai governi di ritagliarsi un proprio livello di responsabilità nell’azione di prevenzione dai terremoti, nell’indirizzamento, finalizzazione, controllo di legittimità e qualità dell’utilizzo delle risorse.
Ci si dovrebbe forse concentrare su quella stretta e lunga macchia più scura nelle carte di pericolosità riportata il giorno dopo Amatrice da tutti gli organi di informazione, che parte dal nord-est, corre lungo l’appennino e passa lo Stretto di Messina, fino a dilatarsi attorno all’Etna. Al suo interno sono circa 3000 i comuni a maggior rischio sismico; presi a gruppi accomunati dallo stesso destino rispetto al terremoto potrebbero diventare l’obiettivo di un diverso modo di promettere maggiore sicurezza: lo sviluppo delle conoscenze, la straordinaria evoluzione delle tecnologie di acquisizione, organizzazione e analisi dei dati, potrebbero certamente concorrere a realizzare una piccola rivoluzione.
Si potrebbe pensare che la previsione, la prevenzione e la pianificazione dell’emergenza non siano azioni da tenere separate come lo sono state finora. La previsione non è certo quella del quando un evento si verificherà, ma quella del dove può colpire e che cosa lì potrà accadere; un’azione di prevenzione diversa sarà proprio quella indirizzata dai risultati, limitati ma preziosi, di questa previsione. Sarà efficace una prevenzione che utilizzi gli strumenti di riduzione delle vulnerabilità in modo più incisivo, con interventi mirati e ordinati per priorità e su “oggetti” individuati. Infine la pianificazione dell’emergenza deve sviluppare scenari in grado di prefigurare un quadro dettagliato delle criticità che, un attimo dopo l’evento, debbono essere affrontate e risolte.
Amatrice è in un’area caratterizzata da una delle sismicità più elevate dell’Appennino centrale, non è ammissibile che possa rimanere isolata perché nessuno dei ponti che le garantiscono la raggiungibilità è sufficiente protetto dal terremoto; non è accettabile che a nessun livello di responsabilità si sia pensato a garantire le infrastrutture strategiche per il soccorso. Nel manifestarsi del terremoto diviene critico ciò che era già vulnerabile. Il piano d’emergenza può divenire uno strumento di individuazione puntuale della vulnerabilità, e uno strumento utile a definire, anche sul piano delle priorità, gli interventi di prevenzione.
L’utopia della “messa in sicurezza dell’intero patrimonio edilizio, ci volessero cent’anni”, sulla quale sono stati intrattenuti dai teleschermi i cittadini impauriti dall’ultimo disastro, potrebbe confrontarsi con la possibilità di adottare un approccio più circoscritto, concentrando le risorse nelle aree note a maggior rischio, attraverso programmi nazionali definiti, monitorati e verificati a livello centrale, attuati attraverso le regioni interessate e alimentati dal livello comunale. La prevenzione non si eserciterebbe più solo attraverso prescrizioni normative da applicare a porzioni di territorio accreditate di un determinato livello di sismicità, ma piuttosto attraverso una puntuale verifica di vulnerabilità di “oggetti” individuati dallo scenario di piano: non solo edifici e infrastrutture, ma anche sistemi, reti e funzioni di servizio.
Una scelta coraggiosa, fatta in modo innovativo in un paese che ha problemi diversi da tutti gli altri: la necessità di proteggere le sue popolazioni e al contempo di conservare integra la sua storia meno recente fatta di straordinari paesi appesi ai versanti, pieni di preziose testimonianze, di cultura e tradizioni. Nel momento in cui il dopo terremoto ripetutamente si consuma nella tragedia e genera la comprensione e la solidarietà del mondo, è forse legittimo trovare nuove strade, soluzioni diverse per ridurre la straordinaria vulnerabilità del paese, per cambiar verso davvero all’Italia rispetto ad uno dei suoi più gravi problemi.