il manifesto, 28 ottobre 2016
Il succo è presto detto: le teorie comportamentiste si basano sulla premessa che il comportamento umano non solo non è razionale, ma neppure molto intelligente. Le persone sono preda di pregiudizi, sono condizionate dal comportamento altrui, si sopravvalutano e tendono a fare tante altre cose sciocche, come ingigantire la minuscola probabilità di successo legata all’estrazione di una lotteria; le politiche pubbliche possono sfruttare questi difetti della ‘natura umana’ per migliorare la propria efficienza in termini di raggiungimento dello scopo e prevedibilità del rapporto spese-risultati. Detto altrimenti, e per quanto paradossale sia, le politiche pubbliche basate sul comportamentismo sono politiche (che si reputano) ‘intelligenti’ in quanto sfruttano l’idiozia della gente comune, che danno per scontata. Non solo: esse considerano la povertà intellettuale delle persone, postulata come dato di natura, non come un problema da affrontare – per esempio con l’educazione, no? – ma come una risorsa da mantenere e anzi da accrescere il più possibile, dal momento che può essere facilmente sfruttata per raggiungere risultati. Il presupposto del comportamentismo applicato alle politiche pubbliche è che sopra stanno i policy makers, intelligenti e consapevoli, sotto la gente, sciocca e condizionabile: il padrone premia il cane mentre lo addestra (salvo smettere di premiarlo quando avrà imparato bene) e la ‘natura umana’ si scinde in due. Una, quella vera e propria, razionale e libera, chi governa la riconosce a se stesso (o meglio, agli apparati in cui si spersonalizza, apparati che, come oggi si dice, ’riflettono’, dunque sono animati da intelligenza); l’altra, di tipo animale, spetta al resto dell’umanità, ammasso di bestioline, che siccome non sanno concepire il bene e il giusto, vanno addestrate sfruttando le loro ingenue, animalesche fantasie, come quella di arricchirsi a buon mercato che per loro, si sa, vale come uno zuccherino. Sotto il volto furbetto e ‘smart’ di queste politiche lavora più dura che mai l’istanza di disciplinamento compagna di ogni tentazione autoritaria, agisce la rinuncia deliberata a un progetto di convivenza civile.
Combattere l’evasione fiscale, onde aumentarne il gettito, o perseguire qualunque altro fine, pur di per sé condivisibile, adottando politiche basate sul comportamentismo è scelta che dovrebbe essere circondata da un ampio dibattito, perché investe questioni più decisive di qualche punto percentuale nel saldo di bilancio.
E’ problematica la compatibilità di questi metodi con le premesse di democrazie che affermano la pari dignità di tutti i cittadini (e di essi rispetto a chi li governa), tutelano il libero sviluppo della personalità, si propongono pari opportunità per tutti (l’opportunità di sviluppare la propria intelligenza, per esempio) e pertanto vietano la strumentalizzazione degli individui ai fini propri degli apparati governanti.
Sono democrazie, le nostre, nate dalla ‘catastrofe’: orrificate dal campo di sterminio, esse ci avvertono che ogni concezione concentrazionaria inizia con la riduzione dell’individuo a elemento statistico. Invece, riceviamo queste politiche come prodotto finito di una elaborazione che tiene la società ai margini perché la colloca al di sotto di sé, e avviene in modo autoreferenziale (c’è anche l’apposito gruppo di esperti in-house incaricato di sancire la ‘compatibilità etica’ di queste scelte).
Una risata vi sommergerà? Oggi è il potere che ride di noi, ma se ride di noi, come potrà rispettarci? Non è mai troppo tardi per chiederselo.