Ampia analisi dell'insegnamento della Scuola di Barbiana, del ruolo che ebbe sulla vita culturale dell'epoca , sugli equivoci e i fraintendimenti di molte interpretazioni e sulla sua verità e utilità.
Internazionale online, 16 aprile 2017
Nel maggio del 1967 esce per la piccola casa editrice fiorentina LEF un libro dal titolo Lettera a una professoressa. L’hanno scritto don Lorenzo Milani e gli alunni della scuola di Barbiana, una canonica del Mugello a pochi chilometri da Firenze. Un luogo sperduto dell’Appennino, afflitto, ancora negli anni del miracolo economico, dalla miseria e dall’arretratezza. Un luogo di esilio dove don Milani è arrivato il 7 dicembre del 1954, a 31 anni. Niente acqua, né luce, né una strada per arrivarci. Ci vivevano quaranta anime.
Eppure in pochi anni, grazie a questo prete, Barbiana diventa un luogo conosciuto da tutti, e non solo in Italia. Nasce lì, nel 1958, Esperienze pastorali, visto da molti come concreto e profetico contributo al Concilio Vaticano II, immediatamente messo all’indice dalla curia romana che, pur non vietandolo ufficialmente, ne impedisce la pubblicazione. Da Barbiana, nel 1965, parte un invito alla disobbedienza rivolto ai parroci militari. Un testo, pubblicato dal periodico comunista Rinascita e ricordato come L’obbedienza non è più una virtù, che porterà in tribunale don Milani e gli causerà addirittura una condanna dopo la morte.
E sempre a Barbiana nasce il testo più noto di don Milani e della sua scuola, Lettera a una professoressa, autentico livre de chevet di una generazione. “Libretto rosso” del movimento del sessantotto italiano, vademecum di ogni insegnante democratico per anni. Visto oggi come anello centrale di una riflessione sulla necessità di riformare il sistema educativo, che sfocerà nelle grandi battaglie per la scuola degli anni settanta. Ma visto, anche, come l’inizio della fine di tutto: dell’autorità degli insegnanti, della voglia di studiare dei ragazzi, dello stare in disparte dei genitori, come l’inizio, insomma, del “donmilanismo”.
“Noi abbiamo costruito negli anni, grazie anche alle idee di don Milani, una scuola che non insegna più nozioni”, ha scritto Paola Mastrocola. E in un articolo di Sebastiano Vassalli si può leggere: “La mitica scuola di Barbiana (…) era in realtà una sorta di pre-scuola (o di dopo-scuola) parrocchiale, dove un prete di buona volontà aiutava come poteva i figli dei contadini a conseguire un titolo di studio, e se non ci riusciva, incolpava i ricchi”.
Un invito a organizzarsi
Don Milani sa bene che il suo non è un progetto di riforma ma una testimonianza, scritta in prima persona plurale, con un noi che ha nomi e cognomi. “So che a voi studenti queste parole fanno rabbia”, scrive alla giovane Nadia Neri in una delle sue lettere più belle, “che vorreste ch’io fossi un uomo pubblico a disposizione di tutti, ma forse è proprio qui la risposta alla domanda che mi fai. Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola (e questo l’hai capito anche te). Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio”. E ancora:
"La scuola non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che da un cattolico e non può esser fatta che per amore (cioè non dallo Stato). In altre parole la scuola come la vorrei io non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo di una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro bambini."
Il suo, dunque, non è neppure un modello da imitare, come in molti ancora oggi pensano. Eppure, nella sua esemplare essenzialità, questo piccolo esperimento pedagogico che si traduce in una scuoletta di montagna e nella pubblicazione di un libro, poco più di un opuscolo, diventa la scintilla di una rivoluzione. E ancora oggi mobilita il ricordo, innesca passioni, divide e fa litigare, si fissa nella memoria collettiva come un punto di passaggio epocale quando si parla di scuola ma anche di giovani, generazioni, movimenti.
Questo perché fin da pochi mesi dopo la sua pubblicazione il libro acquista una vita completamente autonoma, Lettera a una professoressa è, infatti, il risultato di anni di lavoro e riflessione sulle storture del sistema scolastico italiano e per questo è un libro degli anni sessanta, ma si pone anche l’obiettivo di dire basta con questo ritardo nell’adempimento del dettato costituzionale che vorrebbe il diritto allo studio uguale per tutti. Per questo viene subito adottato dal movimento studentesco.
Su Lettera a una professoressa si fanno seminari in tutte le università occupate; alla Biennale di Venezia del 1968 diventa uno spettacolo teatrale contro l’autoritarismo. Gli insegnanti lo usano per sperimentare nuove forme di didattica; a Roma, all’acquedotto Claudio, don Sardelli fonda una scuola popolare ispirata all’esperienza di Barbiana. Viene definito un libro maoista. Gianni Rodari e il Movimento di cooperazione educativa gli dedicano scritti e riflessioni. Tutti coloro che hanno a cuore il problema dell’educazione si confrontano con Lettera a una professoressa.
Il ruolo di maestre e maestri
Questo grazie alle maestre e ai maestri che trasformano la scuola primaria italiana, e grazie ai linguisti che colgono l’originalità radicale dell’esperienza di Barbiana: il cuore della lettera e di tutto l’insegnamento di don Milani non sta nel non bocciare, o nel disobbedire, quanto nel ben più impegnativo dare tutti gli usi della parola a tutti. La lingua non è mai statica, né unica né definita o definibile una volta e per sempre: strati e stati si accavallano e convivono; quando uno di essi vince (quando cioè l’innovazione da eterodossa viene accolta come ortodossa), i puristi si sforzano di conservarlo, i grammatici di descriverlo, i maestri di insegnarlo.
Lettera a una professoressa va oltre tutto questo perché coniuga la questione della lingua, che è questione antica, ai cambiamenti della società postindustriale nella quale un analfabeta, come dice un vecchio contadino alla Rai degli anni sessanta, “è cieco”. “La scuola siede tra il passato e il futuro”, scrive don Lorenzo Milani, “e deve averli presenti entrambi”.
Amen. Bastano queste poche righe per raccontare l’impatto del libro, i suoi fraintendimenti, lo svuotamento dell’aspetto più radicale del suo messaggio, la strumentale sovrapposizione delle sue tesi con quelle di una parte del movimento studentesco. Oggi la sua rilettura viene fatta in nome dell’antisessantottismo e assume una funzione antidemocratica. I primi a mettere in discussione l’utilità della lettera sono stati proprio i professori “democratici” che l’hanno letta e usata per anni: letta, usata e non capita. Nel 1978 un articolo sul manifesto pone il problema: come comportarsi con i ragazzi del 1977? Bisogna bocciarli. Quindi don Milani aveva torto…
Consapevole di queste strumentalizzazioni, nel 1982 padre Ernesto Balducci si chiede: “Ha ancora un senso riproporre all’attenzione pubblica Lorenzo Milani?”. E ancora: “Il limite di fondo della proposta milaniana è oggi più visibile: non è possibile chiedere alla scuola-istituzione quel che invece può offrire una scuola spontanea animata da un maestro ‘carismatico’. In quanto è un servizio reso a tutti i cittadini, secondo le regole oggettive dello stato di diritto, la scuola di stato non può essere progettata facendo affidamento sulla eventualità della ricchezza soggettiva degli educatori”.
Ma, aggiunge, la contrapposizione fittizia creatasi tra l’umanità della scuola di Barbiana e la disumanità della scuola istituzionale è una balla, la riforma del 1974 risponde proprio all’idea milaniana che la scuola debba essere l’espressione della comunità civile in tutte le sue componenti, un invito ai genitori a organizzarsi, appunto, dentro la scuola pubblica: “Ecco perché la scuola di Barbiana, se vezzeggiata come un modello ideale, può favorire inerzie utopistiche o fughe nel privato. Essa non è un modello, è un messaggio, e il messaggio non si imita mai, è sempre un appello a nuove creazioni”.
Giovanni Miccoli, scomparso da poco e tra i più efficaci interpreti del priore di Barbiana, ha scritto: "Parlare o scrivere di don Milani è estremamente difficile. C’è il pericolo di appiattirne l’immagine, di semplificarne i contorni, assimilandolo frettolosamente all’una o all’altra delle grandi contrapposizioni che segnavano allora, e in parte segnano ancora oggi, la società italiana."
Viene in mente, pensando a don Lorenzo Milani, quanto scriveva Alberto Arbasino su Pier Paolo Pasolini in un articolo pubblicato su Il Giorno nel 1964: “Una larga sezione della nostra cultura gli ha deferito questo incarico, di rischiare a nome di tutti: perché è vero che chi scandalizza i puri di cuore va sacrificato a nome della collettività (che è rimasta a casa a godere a soffrire)”. Don Milani rischia davvero a nome di tutti. La sua stessa vita viene sacrificata sull’altare dello scandalo quando scrive Esperienze pastorali, in anni nei quali ai parroci è chiesto soltanto di leggere commenti alla scrittura, riassunti del catechismo e poi via a dir messa in latino.
Lui, invece, sceglie la parola, la lettura, insegna a vagliare, criticare, stabilire confronti, a scegliere la fonte, il documento. Al fine di sentirsi ognuno responsabile di tutto, come è scritto nella Lettera ai giudici: "Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. E il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’“.
A don Milani invece dobbiamo molto, moltissimo, in termini di categorie analitiche, negli anni della “buona scuola”, del ritorno alla bocciatura, della farsa dei crediti formativi, della selezione non più di classe ma altrettanto spietata tra vincenti e perdenti (oggi si chiama meritocrazia), in termini di contributo alla riflessione, di contestualizzazione storica di fenomeni che appaiono immutabili.
Nessuna nostalgia
Bisogna rileggere Lettera a una professoressa a partire dalle proprie domande e dalle proprie esperienze, inserendola però all’interno di un contesto troppo spesso messo in ombra, da una lettura miope della figura di don Milani, essendo la sua eredità assolutamente non mediata dalla sua voce, ma solo da quella dei suoi eredi. Don Milani è morto infatti a 44 anni nel giugno del 1967, un mese dopo l’uscita del volume, alla fine di una lunga e dolorosissima malattia.
Si tratta, come suggerisce don Luis Corzo, di riprendere in mano Lettera a una professoressa e collocarla nel tempo, e poi rileggerla partendo dalla propria esperienza personale: “Far ricorso alla propria esperienza leggendo la sua, avvicinarsi a essa con le risposte e le domande che già ci incombono dentro, decisi a confrontare con lui le nostre ragioni più autentiche e profonde, quelle che cerchiamo in lui. Tali ragioni non sono né idee né consegne intransigenti, ma crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni”.
Crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni. Come ha scritto Gianni Rodari: “Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.