Sono rimasto sorpreso e amareggiato nel leggere su eddyburg gli articoli di Silvia Ronchey e di Federico Ruozzi su Don Lorenzo Milani tratti da la Repubblica del 21 aprile. Due articoli che vorrebbero essere simpatetici col Priore ma alla fine lasciano l’insopprimibile sensazione del fraintendimento e persino della complicità, per quanto involontaria, alla ennesima stigmatizzazione del Priore di Barbiana.
L’articolo di Ruozzi – curatore dei due volumi delle opere complete di Don Milani in uscita presso Mondadori – pur scritto nel tentativo di smorzare una polemica tipicamente da società dello spettacolo sulle pretese preferenze sessuali del Priore, finisce con l’alimentare una discussione tanto pruriginosa quanto priva di appigli. Chi sa dove stanno i punti nodali della vicenda biografica del Priore – e per la quale fa ancora largamente testo il magnifico scavo di Neera Fallaci uscito ormai quarantatre anni fa – sa anche che nelle mutande di Don Milani non c’è mai stato nulla da scavare e che il farlo implica necessariamente una scelta, appunto, spettacolare, pruriginosa e tendenzialmente stigmatizzante. Una scelta da quotidiano italiano mainstream, appunto, e dalla quale chi tiene all’insegnamento milaniano dovrebbe opportunamente tenersi a distanza.
Ma sorprende ancor più l’articolo di Silvia Ronchey, che vorrebbe a sua volta costituire un atto di apprezzamento verso l’esistenza e l’insegnamento del Priore.
Il primo elemento che lascia interdetti è la torsione cui viene sottoposta la figura di Don Milani, che diventa una sorta di eroe libertario, o per meglio dire un liberale che sarebbe stato bene nel circolo degli “Amici del Mondo”. Una semplificazione in tono con la cultura di origine di Repubblica, ma che riduce intollerabilmente la complessità, la scandalosa complessità di un uomo che fu senz’altro un grande borghese ma che si distaccò dalla sua classe sociale in più modi, decidendo anzitutto di accettare l’appartenenza a una fede e a una Chiesa e pagandone le conseguenze fino in fondo. Una scelta e una lezione allora come oggi estremamente difficili da comprendere e da accettare: ma una scelta in ogni caso radicalmente opposta a quella di coloro che vedono nell’assoluta centralità dell’individuo l’alfa e l’omega di ogni logica sociale.
Più in generale quel che sconcerta è che per trasformare Don Milani in eroe borghese e libertario Ronchey forza intollerabilmente la biografia del Priore in più punti, finendo persino per dare spago ai più recenti epigoni della sua antica catena di detrattori. L’insistenza sull’ebraicità della sua famiglia e persino sua, ad esempio, laddove entrambi i genitori erano e rimasero sempre rigorosamente agnostici e lontani da qualsiasi forma di appartenenza a comunità religiose, mostra la volontà di assimilare il Priore a una figura canonica dell’immaginario liberale novecentesco come l’intellettuale di cultura ebraica. La sottolineatura - peraltro sulla scorta della lettura di Alberto Melloni, direttore della pubblicazione del volume di Tutte le opere - della pretesa distanza di Don Milani da quello che sarebbe stato il ’68 e dell’abusiva appropriazione da parte di quest’ultimo di Lettera a una professoressa - dalla quale deriverebbe persino “la sistematica decostruzione del sistema scolastico” - cancella con un tratto di penna tutto l’enorme lavoro che nella scuola fecero, proprio sulla scorta della lettura della Lettera e del clima di rinnovamento del ‘68, migliaia di maestri e di maestre democratici, oggi dimenticati e umiliati da una “buona scuola” che ha tutti i tratti del recupero della scuola di classe contro cui il Priore si batté con tenacia, intelligenza e coraggio.
Fa ulteriormente riflettere, infine, il fatto che questo Don Milani inventato – e costruito su basi così fragili e contraddittorie – venga presentato in un articolo dal solenne titolo “Chi è stato davvero Don Lorenzo Milani”.
Quel che viene da pensare è che a quasi settantantacinque anni dalla sua scelta di vita e a cinquant’anni dalla sua morte il Priore di Barbiana resti ancora e sempre un personaggio altamente indigesto e indigeribile. Un personaggio difficile da capire e da accettare, un esempio esigente che chiama a delle vocazioni che sono sempre state e restano di estrema difficoltà: oltre i suoi tempi e - mi viene da dire - molto oltre i nostri tempi. Un modello che richiama i cattolici - e i credenti in generale - a un tipo di fede e a degli stili di vita assai ardui da abbracciare nella loro asperità, nel loro rigore e nella loro inattualità. Ma un modello, anche, che richiama chiunque voglia stare nel mondo a scelte non meno radicali e non meno inattuali: stare dalla parte degli ultimi in un’epoca dominata dal potere bruto e dall’immaginario neoliberista è oggi un’impresa veramente eroica. Altro che l’“inappartenenza come unica possibile resistenza” accarezzata dal quotidiano fondato da Eugenio Scalfari.