il manifesto, 28 giugno 2017 (m.p.r.)
La nuova legge sulla tortura che la Camera si appresta ad approvare in via definitiva lascia l’amaro in bocca, ma non è inutile. E’ vero che dopo decenni di discussioni sterili, di proposte puntualmente archiviate ad ogni fine di legislatura, era lecito attendersi che il Parlamento approvasse una legge migliore. Ma il fatto di porre fine alla rimozione della tortura, scrivendo finalmente quella parola indicibile nel codice penale non è un’operazione priva di una sua logica apprezzabile.
La definizione della nuova fattispecie, frutto di un faticoso compromesso, è lunga e confusa. Ha alcuni difetti specifici, problematici sia dal punto di vista giuridico (nella prospettiva dell’applicabilità della norma) sia, soprattutto, da quello politico-culturale (per l’atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’obbligo di punire severamente tutte le forme di tortura che inevitabilmente esprimono). In particolare, il requisito del “verificabile trauma psichico” ridimensiona l’applicabilità della nuova fattispecie alla tortura mentale. E lascia decisamente perplessi la formulazione da cui si desume la necessità, perché vi sia tortura, di più comportamenti (come se questa non potesse essere il risultato di una sola, gravissima, azione).
Una valutazione equilibrata richiede però che si tenga conto anche di un altro aspetto: quello della sistematica negazione della tortura e della necessità di contrastare quell’atteggiamento. L’esperienza di Amnesty International mostra come in tutto il mondo gli stati accusati di praticare la tortura reagiscano negando i fatti. E se ciò non è possibile, minimizzano, sostengono che si tratta di episodi isolati da attribuire a poche “mele marce”. E se neppure questo è possibile, argomentano che non si tratta di “tortura”, ma di qualcosa di meno grave … è disponibile un nutrito repertorio di eufemismi.
Nel nostro Paese la negazione e l’occultamento della tortura si sono tradotti soprattutto nella volontà di mantenere il silenzio del codice penale (quantomeno di quello ordinario, l’unico che interessa veramente) sulla tortura. Di non prevederla per non dovere ammettere che esiste o che può esistere anche da noi. E’ per questo che ci sembra che chiamare la tortura con il suo nome, prevederla in modo specifico nel codice penale, potere eventualmente discutere di “tortura” (senza nascondersi dietro l’“abuso d’ufficio” o le “lesioni”) in un’aula di tribunale, anche se la definizione è deludente, possa rappresentare un piccolo ma utile passo avanti.
Nessuna delle alternative, del resto, è credibile: né l’idea del tutto irrealistica che il Parlamento possa migliorare il testo della norma entro la fine di questa legislatura né quella di chi preferirebbe rinviare, per l’ennesima volta, nella speranza a dir poco incerta che un nuovo Parlamento possa avere un atteggiamento diverso dagli ultimi cinque. La chiusura dell’ennesima legislatura con un nulla di fatto servirebbe soltanto a rassicurare ancora una volta coloro che continuano a sostenere, a torto ma con determinazione, che una legge sulla tortura, qualsiasi legge sulla tortura, sia contro gli interessi delle forze di polizia.
Antonio Marchesi è presidente di Amnesty International Italia