“UN TESTO PROVOCATORIO E INACCETTABILE.
UNA LEGGE TRUFFA”
di Claudia Torrisi e Andrea Zitelli
Il reato di tortura è legge. La Camera dei deputati ha approvato definitivamente mercoledì 5 luglio il provvedimento, con il voto favorevole, tra gli altri, di Partito Democratico e Alternativa Popolare. Movimento 5 stelle, Sinistra Italiana e Mdp si sono astenuti, mentre Lega Nord, Forza Italia e Fratelli d'Italia hanno votato contro.
Quella dell'introduzione del reato di tortura in Italia è una storia lunga trent'anni. Il 3 novembre del 1988 con la legge 498 il nostro paese ha ratificato la Convenzione ONU contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti del 1984 (CAT). Il documento delle Nazioni Unite per la prima volta sanciva che ogni Stato aderente avrebbe dovuto prendere «provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari» efficaci per «impedire che atti di tortura siano compiuti in un territorio sotto la sua giurisdizione», nonché provvedere «affinché qualsiasi atto di tortura costituisca un reato a tenore del suo diritto penale». Nonostante queste previsioni, in Italia nessuno delle decine di disegni di legge sul tema che si sono susseguiti a partire dal 1989 è riuscito a essere approvato (per molti l'esame non è mai iniziato).
Il 26 giugno scorso è arrivato in quarta lettura alla Camera dei deputati il provvedimento che dovrebbe introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura. Il testo è stato presentato nel 2013, ha avuto un iter piuttosto tormentato e ha subito numerose modifiche. A metà maggio c’è stata l’approvazione del Senato (con voto favorevole tra gli altri di Pd e M5S), accompagnata dalle critiche delle associazioni per i diritti umani e dello stesso promotore della prima proposta del disegno di legge, il senatore del Partito democratico Luigi Manconi, che ha parlato di «stravolgimento» del testo originario.
I richiami e le condanne internazionali all’Italia
La mancanza di un reato specifico nel nostro ordinamento è stata più volte richiamata a livello internazionale. Lo scorso 22 giugno la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l'Italia, definendo le sue leggi «inadeguate» a punire e prevenire gli atti di tortura commessi dalle forze dell'ordine. La sentenza è stata pronunciata in seguito al ricorso presentato da 42 persone che la notte tra il 20 e il 21 luglio 2001 si trovavano all'interno della scuola Diaz di Genova quando ci fu la violenta irruzione della polizia. Una condanna analoga era stata già emessa dalla Corte di Strasburgo nel 2015, con la decisione sul caso di Arnaldo Cestaro, un manifestante sessantenne all'epoca del G8 del 2001 e anche lui vittima del pestaggio da parte delle forze dell'ordine nella scuola sede del Genova Social Forum. In quell'occasione, la Corte ha ritenuto che «i maltrattamenti subiti dal ricorrente durante l’irruzione della polizia» dovessero essere «qualificati come 'tortura'», ma che Cestaro non avrebbe potuto ottenere giustizia nel proprio paese, poiché non è previsto il reato.
Per questa ragione i giudici hanno stabilito la necessità che l’ordinamento italiano si doti di strumenti giuridici adeguati. Due anni dopo, a marzo di quest'anno, il comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha ritenuto insufficienti le misure prese fino a questo momento dall'Italia per dare esecuzione alla sentenza della Corte europea sul caso Cestaro. L'organismo ha notato «con preoccupazione» che «la legislazione italiana non si è ancora ad oggi dotata di disposizioni penali che permettano di sanzionare in modo adeguato i responsabili degli atti di tortura e di altre forme di maltrattamenti vietati dalla Convenzione europea dei diritti umani». Nella stessa direzione vanno anche raccomandazioni del Comitato ONU contro la tortura e di quello analogo del Consiglio d’Europa. Anche nelle osservazioni conclusive dell'ultima sessione del Comitato dei Diritti Umani delle Nazioni Unite dello scorso marzo viene espressa apprensione per il fatto che «il reato di tortura non sia stato ancora inserito nel codice penale» italiano. Un passo che secondo il Comitato va fatto «senza ulteriore ritardo».
Il percorso del disegno di legge in Parlamento
Il lungo percorso di questo disegno di legge in Parlamento, dalla sua versione originaria a quella di oggi, è stato caratterizzato da continue modifiche al testo, apportate dalla maggioranza nel corso delle votazioni tra Camera e Senato, con le conseguenti critiche da parte di coloro che, pur favorevoli all’introduzione del reato di tortura, ritenevano che i cambiamenti depotenziassero il testo originario, tanto da rischiare di renderlo inutile.
Cosa prevedeva il testo presentato da Manconi
Nel marzo del 2013, Luigi Manconi, insieme ad altri 2 senatori, presentò un disegno di legge che prevedeva l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Il testo, “elaborato dalle associazioni Antigone e da A Buon Diritto, e fortemente voluta da Amnesty International”, puntava così a colmare la mancanza di questo reato nell’ordinamento giuridico italiano. Il Ddl (composto da quattro articoli) si rifaceva alla definizione di tortura della Convenzione delle Nazioni Unite del 1984: «(...) qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate».
Il reato di tortura veniva pertanto riconosciuto come un “delitto proprio” – cioè commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio – e non era quindi inteso come un reato comune. L’articolo 1 prevedeva la reclusione da quattro a dieci anni per il “pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, lesioni o sofferenze, fisiche o mentali” per ottenere informazioni o confessioni, per punirla, intimorirla o per discriminarla. La pena aumentava se c’erano anche lesioni personali e raddoppiava con la morte della persona sottoposta a tortura. Erano previsti inoltre gli stessi anni di reclusione per “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che istiga altri a commettere il fatto, o che si sottrae volontariamente all’impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente”.
Come è poi cambiata la proposta di legge
Il disegno di legge viene approvato con modifiche una prima volta, circa un anno dopo, nel 2014, da parte del Senato. Nel nuovo testo di legge (composto da 6 articoli), il reato di tortura passa da “proprio” a generico, con una pena prevista da 3 a 10 anni. Commettere il fatto da parte di un pubblico ufficiale da elemento costitutivo del reato passa così ad aggravante: con una reclusione in carcere da 5 a 12 anni (da 6 mesi a 3 anni per l’istigazione). Le pene, inoltre, vengono aumentate in caso di lesione personale. Se poi la tortura provoca la morte della vittima, sono previsti 30 anni. Per il colpevole che uccide volontariamente una persona, torturandola, c’è l’ergastolo.
Ad aprile del 2015, il provvedimento arriva per la seconda votazione alla Camera. L’aula lo approva, anche questa volta con modifiche. Oltre a cambiare l’entità delle pene previste (in alcuni casi aumentadole), nel nuovo testo si aggiunge che il reato di tortura si applica – sia nel caso generico, che nell’aggravante commessa da un pubblico ufficiale – se la sofferenza patita dalla vittima è ulteriore “rispetto a quella che deriva dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Tre mesi dopo la Commissione Giustizia del Senato apporta nuovi cambiamenti al testo. Per configurarsi il reato di tortura le violenze e le minacce devono essere “reiterate” e il colpevole deve aver agito “con crudeltà” e aver cagionato oltre a sofferenze fisiche anche “un verificabile trauma psichico”. Il requisito delle condotte “reiterate” è stato poi cancellato dall’aula del Senato pochi giorni dopo.
Lo scorso 17 maggio, l’aula del Senato approva per la terza volta il provvedimento, circoscrivendo ulteriormente la configurazione del reato (che resta comune). Nel testo viene aggiunto che affinché ci sia tortura, il fatto deve essere commesso mediante “più condotte” o attraverso “un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Vengono poi ridotti gli anni di carcere previsti per l’istigazione alla tortura da parte di un pubblico ufficiale (passando da “uno a sei anni” a “sei mesi a tre anni”) e specificato che il fatto deve avvenire con modalità concretamente idonee all’istigazione della tortura. La nuova formulazione del reato è quindi questa: «Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona».
In un dossier del servizio studi della Camera viene specificato che il testo votato al Senato (e ora arrivato alla Camera per la quarta votazione) “dal punto di vista sistematico, connota il delitto in modo non del tutto coincidente con quello previsto dalla Convenzione ONU e sembrerebbe rendere più ampia l'applicazione della fattispecie, potendo la tortura essere commessa da chiunque e indipendentemente dallo scopo che il soggetto abbia eventualmente perseguito con la sua condotta”. Una differenza dovuta al fatto che, si legge ancora nel documento, nella Convenzione ONU “la specificità del reato di tortura è individuata e saldamente agganciata alla partecipazione agli atti di violenza, nei confronti di quanti sono sottoposti a restrizioni di libertà, di chi è titolare di una funzione pubblica”.
Per questo nella Convenzione il reato non può essere comune, ma viene ritenuto “proprio del pubblico ufficiale che trova la sua specifica manifestazione nell'abuso di potere, quindi nell'esercizio arbitrario ed illegale di una forza”.
Chi si oppone al disegno di legge
I continui ritardi e rinvii cui è stato sottoposto il disegno di legge sul reato di tortura dipendono principalmente dall’ostruzionismo di diverse parti politiche, secondo le quali il Ddl sarebbe nocivo per le forze dell'ordine e ne limiterebbe l’operato. Di questa opinione, ad esempio, è il ministro degli Esteri Angelino Alfano, che a luglio del 2016 – quando era titolare del Viminale – ha di fatto bloccato l'esame della legge, per scongiurare «ogni possibile fraintendimento riguardo l'uso legittimo della forza da parte delle forze dell’ordine». Lo stop è arrivato in seguito a una richiesta congiunta da parte di sigle sindacali di polizia e carabinieri per ottenere modifiche a un testo che avrebbe esposto «tutti gli operatori a denunce strumentali da parte dei professionisti del disordine e dei criminali incalliti» e rischiato di «legare le mani alle forze dell’ordine».
Lo scorso maggio Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, ha dichiarato di non aver partecipato al voto sul provvedimento perché preoccupato dell’«uso strumentale» che si potrebbe fare di queste norme; mentre la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ha detto che «punire ogni forma di tortura è sacrosanto, ma non è quello che fa il ddl», che avrebbe invece «un solo scopo: intimidire il personale del comparto difesa-sicurezza e impedirgli di lavorare». Su posizioni analoghe anche la Lega Nord (che ha votato contro il provvedimento al Senato e ha promesso battaglia alla Camera): «Idiozie come questa legge espongono le forze dell'ordine al ricatto dei delinquenti», aveva dichiarato nel 2015 il segretario Matteo Salvini partecipando al “No T-Day”, sit in davanti Montecitorio per protestare contro l'introduzione del reato organizzato dal sindacato autonomo di polizia (Sap).
Le critiche al disegno di legge
Il giorno dopo il passaggio al Senato, Luigi Manconi ha scritto sul Manifesto un articolo in cui ha spiegato le ragioni della sua decisione di astenersi dal voto del Ddl: «Ritengo che quello approvato non sia un testo mediocre: è né più né meno che un brutto testo. E la scelta di non votarlo è stata per me particolarmente gravosa». In effetti, come abbiamo ricostruito, il disegno di legge che il parlamento si appresta ad approvare è molto diverso rispetto a quello depositato quattro anni fa e presenta diversi punti critici. A differenza di quanto previsto dalla Convenzione del 1984, innanzitutto, la tortura non viene configurata come “reato proprio” ma come “delitto comune”, che può essere compiuto da chiunque si trovi a esercitare una qualche forma di «vigilanza, controllo, cura o assistenza».
Questo inquadramento è stato difeso dal relatore di maggioranza della legge, Franco Vazio: «Il reato comune è più ampio, se fosse il contrario mi verrebbe da dire che non sarebbero ricompresi atti di tortura non del pubblico ufficiale. Nel nostro caso, invece, il reato è comune e nel caso in cui venisse compiuto dal pubblico ufficiale subisce un particolare aggravamento di pena. (...) Abbiamo costruito cioè un testo capace di cogliere tutte le sfaccettature».
Secondo Manconi, però, definire la tortura un “reato comune” snatura l'essenza stessa di un delitto che non è «misurabile sulla base dell’efferatezza, della crudeltà o dell’intensità delle sofferenze che infligge, bensì sulla sua origine. Questo è il nodo che nessuno vuol comprendere: non è un atto tra due individui capace di produrre sofferenze fisiche o psichiche, ma è l’atto commesso e realizzato da chi detiene legalmente il potere di tenere sotto controllo un’altra persona. Questa parola 'legalmente' è cruciale». La tortura, insomma, «nasce dall’abuso di potere legale. Se non si capisce questo, non si capisce nulla. La tortura, per intenderci, non è quella di Er Canaro contro l’usuraio, quella è un’altra roba».
Questa posizione è condivisa anche dall'Unione Camere Penali Italiane, secondo cui «l’aver voluto insistere sulla sua qualificazione come reato comune, anziché proprio, prevedendo solo una circostanza aggravante (almeno nell’intento del legislatore) nel caso in cui dei fatti si renda responsabile un soggetto pubblico (bilanciabile con le attenuanti), ha comportato un vero e proprio stravolgimento dell’assetto, per così dire 'naturale' della fattispecie».
Un gruppo di magistrati che si è occupato dei processi per i fatti del G8 di Genova ha scritto una lettera alla presidente della Camera dei deputati, denunciando come la configurazione di “reato comune” possa avere delle conseguenze anche sul raggio d'applicabilità della legge a fatti riconosciuti come tortura in sede europea, come l'irruzione alla scuola Diaz: La necessità, imposta dalla norma, di inquadrare la relazione tra l’autore e la vittima (quest’ultima deve essere privata della libertà personale; oppure affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’autore del reato; ovvero trovarsi in condizioni di minorata difesa) è conseguenza della scelta di configurare la tortura come un reato comune, ma esclude dall’ambito operativo della fattispecie molte delle situazioni in cui si sono trovate le vittime dell’irruzione nella scuola Diaz che non erano sottoposte a privazione della libertà personale da parte delle forze di Polizia e non si trovavano in una situazione necessariamente riconducibile al sintagma della 'minorata difesa'.
Il Ddl prevede che per essere qualificato come tortura il delitto debba aver causato "acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico". Le violenze e minacce, inoltre, devono essere state perpetrate "con crudeltà" e si deve trattare di un atto compiuto attraverso "più condotte" o che comporta un "trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Il campo è poi ulteriormente ristretto, specificando che la legge non è applicabile nel caso "di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti".
Anche questi aspetti, frutto delle modifiche cui è stato sottoposto il disegno di legge, sono stati duramente criticati da Manconi, secondo cui «così come è stata scritta, la norma risulta di ardua applicazione: devono ricorrere nella definizione votata tali e tante circostanze da rendere complessa ogni operazione ermeneutica». Ad esempio, la richiesta di più condotte implica per il senatore che «il singolo atto di violenza brutale (si pensi a una pratica singola di waterboarding, ndr cioè la simulazione d'annegamento) potrebbe non essere punito»; mentre il fatto che il trauma psichico debba essere verificabile «significa introdurre un elemento di valutazione che impone probabilmente perizie psichiatriche o psicologiche. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima?».
La previsione di un “trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”, secondo il relatore di minoranza del Ddl Vittorio Ferraresi (M5s) «vuol dire tutto e niente» perché, così come per le “più condotte”, «si dovrà vedere la giurisprudenza e si dovrà vedere sia l’interpretazione dei giudici sia poi l’applicazione». Molte volte, ha aggiunto, «in luoghi come le carceri è già impossibile tirare fuori qualche informazione e qualche prova, figuriamoci con questa scritta se si potrà andare a vedere veramente se il trattamento è inumano o se c’è la crudeltà o non c’è. Stiamo parlando veramente di un livello di difficoltà di accertamento di un reato così grave, che lascia il tempo che trova».
Nella lettera alla presidente Boldrini, i magistrati del G8 di Genova lamentano che «se ai casi che sono stati esaminati nei processi di cui ci siamo occupati fosse stata applicata la normativa oggi in discussione» non avrebbero potuto chiamare in causa nemmeno l'agire «con crudeltà» previsto dal ddl: «secondo l’interpretazione corrente dell’omonima aggravante comune, infatti, la crudeltà è un contenuto psichico soggettivo non facilmente ravvisabile nell’agire del pubblico ufficiale che potrebbe sempre opporre di aver operato avendo di mira finalità istituzionali».
Quelle riferite dai magistrati sarebbero però, secondo il relatore Vazio, preoccupazioni eccessive: «Se entriamo nella logica della Diaz - non conosco i fatti e rispetto il parere del pubblico ministero - mi sentirei di dire che quei fatti vi rientrano pienamente. I giornali riferirono di attività di particolare crudeltà che hanno cagionato certamente 'acute sofferenze fisiche'. Ipotizziamo però che non ci siano le caratteristiche. Beh rimangono i reati per i quali si possono punire quelle persone che hanno commesso fatti di violenza, minacce, percosse o arresti illegittimi».
Queste ultime sono proprio le fattispecie che fino a questo momento sono state utilizzate nei processi in mancanza del reato di tortura in episodi come quelli della scuola Diaz, della caserma di Bolzaneto o del carcere di Asti, con il risultato di una pressoché generalizzata impunità, anche per via dei tempi di prescrizione brevi dei reati che sono stati ascritti ai colpevoli. E proprio sul tema della prescrizione del reato, infine, il Ddl non prevede nulla. Nel passaggio alla Camera è stata eliminata la previsione del raddoppio dei termini, nonostante sia la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che la stessa Convenzione di New York prevedano l'imprescrittibilità per la tortura. Interpellato su questo punto, Vazio ha risposto: «Non stiamo parlando di un reato come la corruzione, che è difficile da scoprire perché colui che ha subito il reato non ha interesse a denunciarlo».
Molto spesso, invece, accade l'esatto contrario. Come spiega l'avvocato Michele Passione, autore di uno dei saggi contenuti nel libro Per uno Stato che non tortura, «l'emersione delle notizie di reato è molto complicata. Perché se una persona è detenuta in un qualunque luogo di privazione della libertà personale, far emergere fintanto che la sua condizione di detenzione permane quello che gli è accaduto è molto complicato. Si ha il timore di essere esposti a ritorsioni, e nel frattempo il tempo scorre. Poi le indagini sono molto complicate perché c'è una protezione che viene fatta attorno a queste vicende per questioni che sono spesso subculturali prima ancora che di altro tipo. E quindi la prescrizione è un approdo molto facile».
Per il senatore Manconi, dunque, l’approvazione di questo Ddl tortura «significa ancora una volta che non si vuole seriamente perseguire la violenza intenzionale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio in danno delle persone private della libertà o comunque loro affidate». Un appello sottoscritto da cittadini, giornalisti, psicologi, vittime di tortura, magistrati e avvocati, ha definito inoltre il Ddl approvato dal Senato una «legge truffa», un «testo provocatorio e inaccettabile». Se la Camera lo approvasse, «l’Italia avrebbe una legge che sembra concepita affinché sia inapplicabile a casi concreti; avremmo cioè una legge sulla tortura solo di facciata, inutile e controproducente ai fini della punizione e della prevenzione di eventuali abusi», si legge nella petizione firmata, tra gli altri, anche dalle vittime del G8 Arnaldo Cestaro e Lorenzo Guadagnucci, e da Ilaria Cucchi.
Le associazioni per i diritti umani condividono le stesse preoccupazioni. Secondo Amnesty International Italia e Associazione Antigone si tratta di un testo «impresentabile» e «limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e circoscrivere in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura mentale è assurdo per chiunque abbia un minimo di conoscenza del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo, nonché distante e incompatibile con la Convenzione internazionale contro la tortura».
Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International, in un’intervista a Radio Radicale ha ribadito a fine giugno che la legge non è adeguata, ma ha aggiunto di ritenere «che comunque il fatto di porre fine alla rimozione della tortura, al silenzio del codice penale sulla tortura, introducendo una legge che non sarà applicabile in tutti i casi ma lo sarà sicuramente in alcuni, rappresenti un piccolo, un piccolissimo passo avanti». Il 16 giugno scorso, il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks in una lettera inviata ai presidenti di Camera e Senato, a quelli delle relative commissioni Giustizia e a Luigi Manconi, ha sollecitato il Parlamento italiano ad adottare una legge sulla tortura «pienamente conforme agli standard internazionali in materia di diritti umani». Muižnieks ha ravvisato come alcuni aspetti del Ddl siano «disallineati rispetto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, alle raccomandazioni della Commissione europea per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani e degradanti e alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura». Per questa ragione il commissario ha espresso «preoccupazione» per il fatto che una tale legislazione possa creare «situazioni in cui episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restino non normati, dando luogo pertanto a possibili scappatoie di impunità».
Corriere della Sera, 9 luglio 2017
LA LEGGE SULLA TORTURA
E I VINCOLI DA RISPETTARE
di Valerio Onida
Caro Direttore, è stata definitivamente approvata la legge che introduce nel codice penale il delitto di tortura. Si tratta di un provvedimento che lo Stato italiano era tenuto ad adottare fin da quando, nel lontano 1988, fu data esecuzione in Italia alla Convenzione di New York del 10 dicembre 1984, entrata in vigore nel 1987. Siamo in ritardo di quasi trenta anni!
Infatti da tempo la Corte europea dei diritti dell’uomo ha «messo in mora» l’Italia su questo tema. Nella sentenza Cestaro contro Italia del 7 aprile 2015, relativa ai noti fatti della scuola Diaz di Genova all’epoca del G8 del luglio 2001, la Corte aveva espressamente dichiarato che «è la legislazione penale italiana applicata al caso di specie a rivelarsi inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e al tempo stesso priva dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili». E lo scorso 22 giugno, in un’altra pronuncia relativa agli stessi fatti (Bartesaghi Gallo e altri contro Italia), la Corte, confermando il suo giudizio, aveva ribadito «l’insufficienza dell’ordinamento giuridico italiano quanto alla repressione della tortura».
Dunque, una legge assolutamente necessaria. Come si spiega allora che si sia discusso per tanto tempo, e che addirittura, in Senato, proprio uno dei primissimi firmatari della relativa proposta di legge nella presente legislatura, Luigi Manconi, abbia dovuto annunciare che non votava, non condividendolo, il testo così come portato all’esame dell’assemblea?
Il punto chiave è nella definizione delle condotte che integrano il delitto di tortura. La definizione della tortura è espressamente e precisamente dettata dalla convenzione internazionale che l’Italia ha sottoscritto: «Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito»: esclusi naturalmente il dolore o le sofferenze «derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate». Dunque si tratta di un tipico «delitto di Stato».
La legge avrebbe dovuto semplicemente riprodurre la definizione della Convenzione, o comunque rifarsi integralmente ad essa, per darvi piena e fedele attuazione. Invece in Parlamento si sono elaborati e votati dei testi che hanno preteso di dare una diversa definizione. L’ultimo testo suona così: «Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Si noterà, anzitutto, che mentre la Convenzione si riferisce unicamente ad atti compiuti da un pubblico ufficiale o per sua istigazione o con il suo consenso, la legge si riferisce a «chiunque», quindi configura un delitto comune, sia pure poi prevedendo una aggravante e quindi una pena maggiore se i fatti sono commessi «da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio».
Perché questa diversa definizione? Non vale addurre che anche soggetti non investiti di funzioni pubbliche, come gli appartenenti a gruppi di criminalità comune o mafiosa o terroristica, possono ricorrere per i loro scopi criminali alla tortura nei confronti delle persone loro prigioniere. Infatti non mancherebbe comunque il modo di punire adeguatamente tali violenze commesse da privati, mentre le condotte «tipiche» da prevenire e da punire sono quelle dei pubblici funzionari che legalmente hanno il controllo fisico di una persona. Ma fin qui, si potrebbe dire, poco male: si è estesa la portata della definizione del delitto al di là dell’ambito internazionalmente definito. (anche se non è detto che questo non provochi delle conseguenze).
Tuttavia la legge in discussione va al di là: ritiene che vi sia un’ipotesi di tortura solo se «il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Perché «più condotte» e non ne basta una? Secondo la Convenzione, è tortura «qualsiasi atto» intenzionale con quei caratteri, ed è logico che sia così. Si potrà forse obiettare che comunque, secondo la legge, anche un singolo atto, se comporta «un trattamento inumano e degradante», sarebbe punito. Ma che cosa conduce a discriminare una singola condotta che cagioni «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico» senza però comportare un «trattamento inumano e degradante»? E ancora, che vuol dire che il trauma psichico deve essere «verificabile»? Un atto che cagioni «acute sofferenze psichiche» non è tortura se il trauma psichico non è «verificabile»?
Il Parlamento non era libero di definire restrittivamente i confini del delitto: era vincolato dalla Convenzione internazionale, dato che la Costituzione (art. 117) obbliga il legislatore ordinario a conformarsi alle norme internazionali. Onde, una legge non conforme alla convenzione potrebbe e dovrebbe domani, nel caso in cui venga in applicazione, essere portata all’esame della Corte costituzionale e da questa censurata. Non a caso il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, aveva indirizzato una lettera agli esponenti del Parlamento italiano esprimendo la preoccupazione che proprio queste caratteristiche della legge possano dare luogo a potenziali «scappatoie» di impunità.
Si è temuto forse di far apparire una «volontà punitiva» nei confronti delle forze dell’ordine? Ma chi può pensare che si esprima una «volontà punitiva» ingiustificata allorché si definiscono, in conformità alle norme internazionali, condotte illecite che non devono e non possono in nessun caso e sotto nessun pretesto essere proprie delle forze dell’ordine di uno Stato democratico? Piuttosto, suona offensivo per i nostri poliziotti e i nostri carabinieri pensare a nascondere o a mascherare o a minimizzare condotte inequivocabilmente contrarie, prima ancora che ai diritti umani, al loro statuto fondamentale di agenti e protettori della legalità .