si chiede come superare la frammentazione di quel 15% che ha votato alla sinistra del listone. Il quale persegue una formazione, federativa o unitaria, di tutte le sinistre moderate. Operazione che Asor definisce anche intrinsecamente logica: se Prodi e D'Alema la pensano allo stesso modo, se mirano a un'alternanza democratica e rispettosa delle regole, senza Berlusconi Bossi e Fini, nell'orizzonte del liberalismo compassionevole della Carta europea competitivo e privatizzatore, tanto vale che si mettano assieme. Ma perché quel 15% che non la pensa così non fa lo stesso? Non ha condiviso con i moderati la scelta delle guerre, non considera che basti una copertura dell'Onu per ricorrervi, è contrario alla flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro che il governo di centrosinistra aveva covato con Treu, insiste per la priorità di alcuni beni pubblici (scuola, sanità e previdenza) sul privato. Non sono convergenze da poco. Perché non si danno un'iniziativa comune che farebbe pesare quel 15% più di quel che pesi ora sul quadro politico? Non sarebbe «organico» all'opposizione o a un governo di centrosinistra avere due gambe? Bertinotti, che pur persegue un accordo elettorale con la sinistra moderata per far uscire di scena la Casa delle libertà, obietta che anzitutto una fisionomia della sinistra radicale non è organica al quadro di centrosinistra, e fin qui ha ragione: non è la stessa cosa formare una maggioranza elettorale o anche di governo - tipici oggetti di mediazione - e ricostruire una forza di sinistra coerente. Ma questa obiezione sembra rivolta, più che ad Asor Rosa, alla proposta di costituente di tutte le sigle che hanno concorso al famoso 15%, avanzata da Diliberto. Obietta Bertinotti che queste sigle non rappresentano la ricchezza dei movimenti e che è impensabile costruire un'alternativa senza di essi; e in secondo luogo che questa comporta un rivolgimento delle categorie politiche classiche della sinistra, rivoluzione culturale che già sta nei movimenti ed esclude un progetto compatto sul che fare. Questo, aggiunge, è il lavoro che Rifondazione ha avviato con il gruppo della sinistra europea.
Discuterei questa ultima affermazione, conoscendo i partiti che vi sono confluiti. Ma più importanti sono i ragionamenti che la precedono. E' certo che sarebbe folle definire un'alternativa anche a breve termine senza tenere conto della grande sollevazione dell'opinione fra i popoli che da alcuni anni costituisce la vera novità del quadro politico e non è stata prodotta dai partiti. Ma è altrettanto certo che ne è costitutivo il rifiuto a darsi una rappresentanza. Come il femminismo, i movimenti sono antipolitici e non è difficile scorgerne le ragioni, quindi nessuno delega nessuno, ed è il motivo per cui una costituente dei movimenti, cui Bertinotti lavora da tempo, non è avvenuta. Neanche a prescindere dalle sigle che hanno coaugulato il famoso 15%. Non so se questo atteggiamento sarà una costante. So che esso comporta oggi la rinuncia ad affrontare il blocco dei poteri proprietari, economici, militari sul terreno istituzionale, che è poi quello sul quale si decidono i grandi rapporti di forza, guerre incluse. Puntano i movimenti su un'azione molecolare che disgregherà dall'interno questo blocco? Sta di fatto che Bertinotti non può pensare di metterli attorno a un tavolo per definire un'alternativa alla Casa delle libertà o a un eventuale centro. Essi sono una presenza essenziale alla quale i partiti della sinistra dovrebbero fungere da sponda, senza pretendere né di assorbirli né di esserne assorbiti. In verità mi pareva che Rifondazione fosse già giunta a questa conclusione. Ma essa lascia totalmente aperta la necessità di una iniziativa politica loro, dei sindacati, dei gruppi che si vogliono rappresentativi.
Bertinotti aggiunge che un'alternativa implica affrontare un rivolgimento culturale che i movimenti avrebbero già costruito, che sarebbe autosufficiente, che non abbisognerebbe di programmi, tantomeno se venuti da altri e si esprimerebbe in un molteplice work in progress rifuggendo da compattezze e compiutezze. Non sono convinta che sia così. I movimenti rompono con il metodo della politica attuale ma riprendono molti elementi della politica moderna, quelli che Tronti chiama il grande `900. Quando rifiutano la guerra come soluzione dei conflitti, fanno propria e diffusa la dichiarazione delle Nazioni unite del secondo dopoguerra - la domanda cui né essi né noi rispondiamo è perché questa acquisizione comune sia andata perduta. Analogamente, Melfi o Terni non sono una nuova invenzione della lotta di classe, né Scanzano è una rivolta popolare «neoidentitaria» (fortunatamente): sono grandi riscoperte e riattraversamenti dopo la caduta conflittuale degli anni `90. Insomma una elaborazione fra politica, cultura e soggetto sociale diretto è da fare.
E rispetto a questa urgenza la diatriba sul vecchio e il nuovo non ha grande interesse. Proporrei di passare dal metodo: chi ha diritto e possibilità di darsi da fare per l'alternativa? al merito: in che consiste l'alternativa? E vedo due problemi. Il primo è che la costituzione di una sinistra deve ridiscutere la rappresentanza - pena la riproduzione dei propri vizi o la dissoluzione in una forma di populismo o la mera ripetitività dello slogan «la politica è in crisi». E questo rimanda anche a grandi e irrisolte questioni di teoria (e di storia). Ma non impedisce alle forze politiche in campo, anzi, di esporsi subito. Infatti, come si può affermare sul serio, per esempio, una priorità del pubblico sul privato senza riproporre il problema di chi decide? Dei diversi livelli delle istituzioni e del loro rapporto con una partecipazione non istituzionalizzata? Si possono difendere i diritti del lavoro o avanzare un programma di pieno impiego senza definire le istanze decisionali pubbliche e non solo legate al conflitto sui luoghi di lavoro ma ormai perfino continentali? Su questo punto si sfugge sempre per paura di essere accusati di statalismo. Il secondo problema è che un'alternativa esige una presa di posizione, con relative tappe e alleanze, sul tema se essere antiliberisti (cosa che tutti affermano) non significhi anche essere anticapitalisti, almeno nel medio termine, almeno nell'orizzonte che ci si dà. Anche su questo le sinistre sfuggono. Per molti di essi il potere sul modo di produzione è indifferente, il lavoro non è più «al centro» (espressione sempre un po' ridicola); il conflitto non sarebbe più che un esercizio ginnico. Con i codicilli che ne conseguono, la libertà viene prima dell'uguaglianza, la persona prima della società, e avanti di questo passo. Qui sta il nodo gordiano che divide la sinistra radicale da quella moderata, ma investe anche la maggioranza dei movimenti. Penso non solo a Galtung e a Latouche ma ai miei amici e compagni di Carta, a certe tesi negriane, a tutto l'ecologismo.
Un'alternativa agibile che non sia soltanto un'affermazione di dover essere ha questo orizzonte e insieme deve mediarlo subito. Il 15% di cui parla Asor e le sigle che lo hanno raccolto e i movimenti che lo hanno da lontano o da vicino sorretto sono costretti a porsi ambedue questi problemi. Che Berlusconi se la cavi o no, per il governo delle destre è suonata la campana. L'ha suonata il centro. Tutte le sinistre sono rimaste assenti. Restarlo nel passaggio che si va delineando sarebbe una responsabilità grave.