Esattamente 35 anni fa, il 28 novembre del 1969, Roma - che li conosceva poco - fu invasa dai metalmeccanici. Le cronache dell'epoca raccontano di due cortei giganteschi che per sei ore sfilarono da piazza Esedra e dalla Piramide fino a piazza del Popolo. Li ricordo anch'io quei cortei: per noi studenti romani che uscivamo dal sessantotto fu il primo vero incontro con la mitica classe operaia del nord. Giornata memorabile. Noi capimmo una cosa che fu decisiva per la nostra formazione: la classe operaia non era solo un concetto, un ragionamento dei libri, e neppure soltanto un ceto o uno strato sociale: era una forza concreta e formidabile, formata da migliaia e migliaia e migliaia di persone, in carne ed ossa, tenaci, intelligenti, combattive, fantasiose, che potevano cambiare il corso della politica, vincere delle battaglie, modificare il nostro futuro. Mi ricordo la sensazione persino fisica di forza - e di serenità - che ci dava quel fiume di tute blu: era un autunno di grande tensione politica, dieci giorni prima in un corteo a Milano era stato ucciso un agente di polizia, in ottobre a Pisa la polizia aveva ammazzato due studenti, ogni volta che scendevamo in piazza, o che occupavamo una facoltà universitaria, o una scuola, avevamo paura di essere attaccati dalla celere, di essere picchiati, feriti, messi in prigione. Quel giorno no, fu un corteo splendido e tranquillo, sotto il sole, non temevamo nulla, circondati da quella specie di esercito operaio. Eravamo protetti, forti, spavaldi. Partimmo alle nove di mattina, arrivammo a piazza del Popolo nel pomeriggio, e non si riusciva nemmeno ad entrare, perché era piena come un uovo, era piena via del Corso, via del Babbuino, piazzale Flaminio, e le rampe di Villa Borghese su su fino al Pincio e a Trinità dei Monti. Dal palco parlarono due giovani sindacalisti, Bruno Trentin, comunista, che era un quarantenne, e Giorgio Benvenuto, socialista, poco più che un ragazzo, e poi parlò anche quello della Cisl, cioè il democristiano, un po' più vecchio degli altri due, Luigi Macario.
Noi, in quell'epoca, per intendere la controparte, dicevamo: la borghesia. Bene, la borghesia restò impressionata da quella prova di forza, e iniziò a cedere. Il contratto nazionale di lavoro, che sembrava irraggiungibile, fu firmato un mese dopo e fu un grande contratto, che aumentava i salari, riduceva il cottimo, diminuiva l'orario di lavoro, introduceva in fabbrica la democrazia (si chiamava "democrazia consiliare") e spezzava un decennio di sconfitte sindacali. Fu l'inizio di una spettacolare riscossa che durò diversi anni e si estese rapidamente: ai chimici, ai tessili, poi via via a tutte le altre categorie. In gennaio fu approvato lo statuto dei lavoratori, e fu una sconfitta sonora e travolgente per il padronato stile anni-cinquanta. Nel '72 per i metallurgici ci fu un contratto ancora migliore di quello del ‘69, che stabilì le 150 ore, cioè un periodo dell'orario di lavoro da dedicare gratuitamente all'istruzione. A spese delle aziende e dello Stato. Le 150 ore cancellarono in Italia l'analfabetismo. Due anni dopo ci fu l'accordo sul punto unico di contingenza, che fu una spinta formidabile a quello che per noi era egualitarismo, e oggi, nel pensiero unico, si chiama appiattimento salariale.
Non furono pacifiche quelle conquiste, si sa. Una parte della borghesia in realtà era decisa a trattare con questa classe operaia che avanzava, maturava, era sempre più seria e sicura di se. E che era rappresentata dalla sua stessa autonomia, e poi dai sindacati e dai partiti tradizionali, soprattutto dal Pci, ma anche dalle forme nuove di sindacalismo dal basso, come i Cub, e da nuove e piccole organizzazioni politiche, Potere Operaio, Lotta Continua, il Manifesto, Avanguardia operaia, tutti gruppi che nascevano allora, soprattutto nelle cinture operaie di Torino e di Milano. Ma c'era anche una parte della borghesia che non intendeva trattare, non cercava la via politica e fece la scelta eversiva. Due settimane dopo la marcia delle tute blu su Roma, scoppiò la bomba a piazza Fontana, a Milano, in una banca, fece sedici morti, furono arrestati gli anarchici, uno fu portato in questura a Milano, probabilmente preso a botte, ucciso, gettato dalla finestra, si chiamava Pino Pinelli, era assolutamente innocente. Ci vollero tre anni per stabilire con certezza che gli anarchici con quella strage non c'entravano niente. Chi l'aveva realizzata la strage di piazza Fontana? Ancora nessuno ce l'ha detto, forse i fascisti, forse i servizi segreti, forse gli uni e gli altri di comune accordo; sicuramente la ordinò quella parte della borghesia italiana che non voleva trattare con gli operai e preferiva eventualmente rinunciare alla democrazia.
Gli anni '70 sono stati sanguinosi. Il terrorismo nero (o bianco, o quello dei servizi segreti) ha riempito di bombe il paese, ha ucciso a tradimento centinaia di persone. Tranne poche eccezioni, e cioè i giovanotti dei Nar (Fioravanti, la Mambro, qualcun altro) per il resto è rimasto totalmente impunito. Anche il terrorismo rosso ha seminato morti, senza bombe, con le rivoltelle strumenti più "virili" ma altrettanto ignobili, e ha rovinato l'esistenza dei parenti delle vittime e anche delle migliaia di ragazzi che hanno creduto nella lotta armata e poi hanno passato decine di anni nelle carceri e altre decine con il rimorso che li rodeva dentro. Il terrorismo rosso ha pagato per i suoi sbagli, ma questo non cambia molto le cose.
Se però immaginate gli anni '70 come il buio periodo della violenza, commettete un errore grandissimo. Sono stati anni straordinari, meravigliosi, è stato il decennio nel quale l'Italia è uscita dal suo medioevo fascista e post fascista, ha trovato se stessa, ha inventato i diritti di massa, ha conquistato più libertà, più giustizia, più uguaglianza, un'idea meno corporativa, ed egoistica, e padronale di società, una capacità di liberarsi dalle oppressioni, delle istituzioni totalizzanti, dell'idea ottocentesca dello Stato padrone. In quegli anni l'Italia è stata un paese all'avanguardia. Sono gli anni delle grandi conquiste sociali e delle riforme, avviate proprio in quell'autunno caldo del '69 che era culminato con il 28 novembre dei metalmeccanici. L'Italia del '79 era un paese molto più giusto di quello di oggi. Dove il senso comune era avanzato ed egualitarista, mille miglia lontano dal berlusconismo e dalla marmellata meritocratica dello spirito pubblico di oggi.
Avete letto in questi giorni gli anatemi contro gli anni '70? Non è vero che i conservatori hanno paura che torni il terrorismo e la violenza. E' chiaro a tutti che quel rischio non esiste. Temono che torni lo spirito politico, la passione di massa, la politica-politica che ha reso unico quel decennio. Speriamo che i loro timori siano fondati.