Superare in voti la CdL e liberare il paese dalla presenza dell'attuale governo è, più che un obiettivo politico, una prescrizione di igiene democratica. Sono rilevanti i temi in discussione, dalla ricostituzione di una sinistra (con aggettivi o senza), al metodo con cui si costruisce democraticamente una proposta, tema che ha ricevuto notevole impulso dalle ultime prese di posizione di Fausto Bertinotti. Per essere ottimisti sull'esito dello scontro mi pare manchi non un leader credibile ma piuttosto una idea guida forte. L'arricchitevi di Berlusconi, anche se non credibile, ha emanato un tale «fascino» da portarlo due volte alla vittoria. Il programma dovrebbe essere facilmente delineabile, la restaurazione democratica: giustizia; distinzione dei poteri; scuola pubblica; pluralismo nell'informazione e ruolo del servizio televisivo pubblico. Sta dentro tale «restaurazione» una normativa costituzionale che vieti ogni possibile legalizzazione di comportamenti illegali («condoni» fiscali, edilizi, ambientali, ecc.) e se un federalismo dovesse proprio esserci, che sia temperato e solidale.
Più problematici sono ancora gli aspetti economico-sociali: meno flessibilità nei rapporti di lavoro (si è dimostrato serve solo a esercitare un maggior sfruttamento sulla forza lavoro); garanzia di una stato sociale più allargato, migliore emeno costoso per gli utenti; un programma di lotta alla povertà e all'emarginazione; il mezzogiorno ancora una questione aperta; la politica di governo delle città come caposaldo della convivenza civile, dello sviluppo economico e dell'allargamento della democrazia. Oscura, infine, appare la questione fiscale. Che la situazione imponga un nuovo patto fiscale, tra cittadini e stato, è evidente. Che esso si debba basare sulla trasparenza, pare condiviso dai più, incerta è l'accettazione del fisco non come un carico sui cittadini, ma piuttosto quale contributo finalizzato ad accrescere il valore reale delle disponibilità di ciascuno e di tutti. Una ipotesi di questo tipo non può che partire dalla definizione delle necessità finanziarie dello Stato, in ragione dei servizi offerti e ritenuti essenziali, e quindi prospettare, non una riduzione delle imposte, ma piuttosto una migliore distribuzione progressiva delle aliquote tra le diverse fasce di reddito e una lotta determinata all'evasione. Anche un'imposta patrimoniale, dopo anni di redistribuzione del reddito a favore dei «ricchi», non ci starebbe male.
Pare indispensabile, tuttavia, che l'opposizione assuma anche (e prioritariamente?) in tutto il suo spessore l'obiettivo di riconciliare la società con l'industria. Solo i ciechi non vedono il declino rilevantissimi dell'apparato industriale del nostro paese. Questo mentre molti intellettuali della sinistra (magari ex-operaisti) cincischiano con la fine del lavoro industriale, la smaterializzazione della produzione, il piccolo è bello, e via di questo passo. Certo che il lavoro è cambiato, in questi venti anni più rapidamente che nel secolo precedente, ma il rapporto sociale di produzione non si è modificato, la rivoluzione passiva operata dalle forze del capitale ha teso a cambiare la forma ma non la sostanza di tale rapporto, ne ha, di fatto, peggiorato la condizione. Su questo terreno forse è possibile cogliere passi indietro secolari, con l'emergere sempre più vistoso del «lavoro servile». Se l'economia del paese non deve fondarsi su camerieri, bagnini, maestri di sci, ecc. allora è necessario mettere mano ad una vigorosa politica industriale. L'apparato della grande impresa è in crisi ed è centro di corruzione e malaffare (non importa se privata o pubblica: Parmalat, Cirio, gruppo Eni, per citare solo i più grossi). Appena si soleva un poco il coperchio della loro gestione si viene investiti da fetori pestilenziali di corruzione, di appropriazioni, ecc. (magari qualcuno dei responsabili ha ottenuto una laurea honoris causa in «etica degli affari»). Ma della grande industria non si può fare a meno; tuttavia si tratta di cosa molto importante per lasciarla in mano agli industriali o ai manager; c'è necessità di sviluppare forme appropriate di controllo pubblico e collettivo, si può pescare per questo in vecchi modelli, si può innovare, ma la necessità è questa (si può ripensare all'economia mista che tutti ci invidiavano, ecc.). Ma una tale e vigorosa politica industriale ha bisogno, come già detto, della riconciliazione della società con l'industria. Un'industria rinnovata, innovata, attenta all'ambiente ma anche ai rapporti di lavoro, una società che assuma il lavoro industriale non come un male da sconfiggere, ma come un'occasione di crescita economica, sociale e culturale.
Ma insieme va assunto il rapporto sociale di produzione come terreno di conflitto e di suo superamento in una prospettiva reale, collettiva e di interesse per tutta la società. Sta dentro tale riconciliazione ogni riferimento a un nuovo modello di produzione e di società, così come la difesa ambientale ha al suo centro non l'industria ma il rapporto sociale di produzione che le è costitutivo. Dentro tale riconciliazione è possibile un nuovo patto keynesiano, del tutto impossibile oggi per lo sfaldamento dell'industria e per la sua natura sempre più corrotta, speculativa e appropriativa. Si tratta di una battaglia culturale che la sinistra non può non fare sua, infatti, insieme alla scienza, per la quale vale lo stesso problema di una riconciliazione con la società, ci si riferisce al dato costitutivo dell'organizzazione della società e alla base per il suo superamento. Senza tale vigorosa battaglia culturale, sociale e politica si rischia una deriva «gestionale» con l'illusione di controllare le derive economiche e sociali.