Oggi il mondo (afferma la Fao, che non è un organismo antisistema) produce cibo ampiamente sufficiente a sfamare tutti i suoi abitanti. Ma, come noto, nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo” quasi un miliardo di persone è gravemente sottonutrito, e ogni sei secondi un bambino muore di fame. Mentre in Occidente è una malattia sociale l’obesità da iperalimentazione.
La ricchezza continua ad aumentare in tutto il globo. La società attuale sarebbe in grado di sconfiggere la povertà. Ma circa metà della ricchezza prodotta viene accaparrata dal dieci per cento della popolazione, mentre un miliardo e mezzo di persone vivono con due dollari al giorno. L’impoverimento da anni è un fenomeno costante e diffuso anche tra i ceti medi e nei paesi più affluenti. Lo testimoniano tra gli altri Stiglitz, Fitoussi, Giddens, Lutwack, che non sono dei no global.
Le tecnologie oggi disponibili potrebbero consentire di produrre il necessario a una vita agiata per tutti, e anche una buona quota di superfluo, lavorando tutti un tempo limitato: la profezia di Keynes (tre ore al giorno, ricordate?) potrebbe avverarsi. Di fatto il mondo del lavoro contempla masse di disoccupati e di precari, masse di gente costretta a orari massacranti più straordinari imposti sotto ricatto, masse di sfruttati come ai tempi del più spietato protocapitalismo.
A questo modo si producono quantitativi enormi e crescenti di merci sempre più scadenti, che è sempre più difficile vendere, nonostante prezzi sempre più ridotti, e liquidazioni, saldi, rateazioni senza interessi, facilitazioni di ogni tipo: merci per la gran parte destinate in tempi brevissimi a finire in discarica. Possibile e forse vicina crisi da sovrapproduzione, dicono gli esperti. Incontenibile bulimia di un capitalismo avviato a una seria crisi sistemica, dicono le teste più lucide dell’economia critica, Gorz, Wallerstein, Chomsky, Shiva, Bello, ecc.
La gravissima crisi ecologica che va mettendo a serio rischio il futuro della specie umana è diretta conseguenza del sistema economico oggi dovunque attivo, affermano concordemente gli scienziati di tutto il mondo. E’ conseguenza cioè di un modo di produzione distribuzione e consumo, del quale è obiettivo primo la crescita illimitata: in contraddizione insanabile con i limiti dello spazio in cui opera, cioè il Pianeta Terra.
Non sto dicendo cose nuove. Sono cose che però di rado mi pare vengano adeguatamente considerate, soprattutto nel loro “tenersi” reciproco, nel quadro complessivo di una realtà evidentemente incapace di quella soluzione di tutti i problemi che le destre promettono, e che anche parte non piccola delle sinistre continua a ritenere possibile battendo le strade di sempre. Per “affrontare le sfide imposte dalla crisi del neoliberismo”, come l’invito al “Dibattito” propone, credo innanzitutto si debba tener presente che il mondo in cui il “cantiere” si troverà a lavorare è proprio il mondo tutto intero, dove politiche locali e politiche globali si orientano e vincolano a vicenda, in una inevitabile reciprocità di determinazione. Credo cioè necessaria una cognizione piena della crisi attuale, per tanti versi non comparabile a nessuna crisi del passato, e insieme la coraggiosa consapevolezza del nostro vivere in una situazione estrema, che solo una netta discontinuità storica, una nuova razionalità economica e politica, possono impegnarsi a superare.
E dunque temo che non solo manchino le risposte, ma che si debbano ancora porre molte domande. Mi limito a suggerirne due. La prima riguarda quella sorta di inversione di marcia imboccata da qualche decennio dal sistema economico dovunque operante: perché il capitalismo che per più di un secolo, sia pure tra sfruttamenti e iniquità, è andato oggettivamente migliorando le condizioni delle classi lavoratrici dei paesi industrializzati, oggi crea insicurezza, impoverimento, più pesanti disuguaglianze? Che cosa è cambiato per cui fino a ieri un padre poteva sperare per i suoi figli una vita migliore, e oggi accade l’opposto? Forse a questo proposito le sinistre dovrebbero rileggere criticamente la propria storia, e chiedersi se strumenti in passato utili, spesso anzi portatori di grandi vittorie, possano risultare ancora efficaci; e dunque che cosa significhi oggi lo “sviluppo” ancora tenacemente perseguito.
La seconda domanda muove in realtà da una diversa motivazione della prima. Ci siamo resi conto che i meccanismi dell’ accumulazione capitalistica, quelli che a lungo hanno migliorato vita e speranze di tanti (ma ora non più), sono gli stessi che duramente vanno dissestando gli equilibri naturali, seminando morte (soprattutto tra i più poveri, ciò che alle sinistre non dovrebbe essere indifferente), e moltiplicando crisi disastrose e forse irreparabili? E più che mai, anche in questa prospettiva, tra le sinistre dovrebbe premere il dubbio sull’utilità di una politica ancora imperniata su sviluppo e modernizzazione, e insieme imporsi un severo ripensamento della propria tradizionale politica (non-politica?) ambientale.
Sarebbe assurdo pretendere dal “cantiere” risposte pronte e men che mai definitive a domande come queste, che riguardano il mondo. A cui però non si sottraggono i problemi interni di ogni paese. E dunque tenerle presenti, in ogni momento dell’agire politico, è oggi dovuto. Perché, come dice Etienne Balibar (il manifesto 28 marzo) oggi non esiste politica utile che non sia mondiale, e ogni scelta politica locale, in qualsiasi materia , “implica una scelta ‘cosmopolitica’ e viceversa”.
Sembra averlo capito molto bene Sandro Curzi quando parla (27 marzo) dei “mali diffusi e profondi di questo sistema di sviluppo, sia nella sua versione globale sia in quella domestica”; e quando coglie la valenza rivoluzionaria del problema ambiente. Ma perché il suo intervento non sta dentro il “Dibattito”?