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Rossana Rossanda
Pd
20 Aprile 2007
Sinistra
Nel mare dei commenti sulla scomparsa del Pci-Pds-Ds, un’isola di lucidità e passione, alla ricerca di tempi nuovi. Da il manifesto del 20 aprile 2007

«Codesto solo noi sappiamo quel che non siamo, quel che non vogliamo». I versi di Montale calzerebbero benissimo salvo il rispetto, alla penosa vicenda del Partito democratico, che doveva essere un inizio epocale ed è finora un interminabile diniego. In settimana, i congressi di scioglimento della Margherita e dei Ds diranno quel che non vogliono più essere, ma non è chiaro quel che sarà il nuovo partito che dovrebbe nascere in autunno. Lo vogliono «grande» e «riformista» senza ulteriori precisazioni. Fassino si duole che i giornali diano spazio alle battute, non sempre amichevoli, scambiate fra dirigenti - ma a che altro attaccarsi? Scalfari propone che anche i dirigenti si dissolvano, lasciando la parola a un paese che non sta scalpitando per prenderla. D'altro canto quale aggregazione esprimerebbe un'Italia che, come si legge sullo stesso giornale nelle analisi di Ilvo Diamanti, è un guazzabuglio di interessi che chiamar corporativi è già molto, e precisa d'Avanzo, incattivita da lunghi servaggi?

E' in questo silenzio che si cercano lumi nell'inventario dell'eredità del Novecento (quali padri mettere nel Pantheon e quali mandare alle discariche), cui questo o quel leader si dedica un giorno sì e uno no. L'ultima dei Ds è che mettono fuori Berlinguer e dentro Craxi: della loro storia non hanno nulla da salvare. La Margherita si tradisce meno, sia per virtù sia per reticenza. In confronto, Sdi e Udc brillano di chiarezza: il primo vuol rifare il Partito socialista italiano, raccogliendone i resti dovunque si trovino, il secondo si propone di fare lo stesso con l'ex Democrazia cristiana. Né Boselli, né Casini si attardano sui padri, non sia mai che si urti qualche suscettibilità. Boselli con il nuovo Psi raccoglie le bandiere laiche lasciate cadere dai Ds, Casini niente meno l'idea di un moderatismo cattolico che si scioglierebbe da Berlusconi - mentre il costituendo Partito democratico si ispirerebbe, secondo Veltroni che ne è un araldo, a Bill Clinton, senza radici dalle nostre parti.

Il convitato di pietra di tutta la storia, quello che è stato ucciso e si spera sepolto, è la radice socialista della sinistra. Il socialismo è stato declinato in molte maniere, ma un'idea forte aveva alla base, l' insopportabilità politica, alla luce della modernità, di un modo di vivere e di produrre inuguagliante e strumentale come quello capitalistico, non regolato se non dal mercato. Sul come rimediarvi, se per riforme o per rivoluzione, è stato l'oggetto del contendere fra socialisti e comunisti, ma che quel «sistema» fosse intollerabile, per l'illibertà sostanziale che esso comporta per la grandissima maggioranza degli uomini (tutti coloro che non detengono mezzi di produzione), era luogo comune. Ma a fine del secolo proprio quel sistema è diventato mondiale, governa non solo attraverso gli stati ma gli stati medesimi, e ha comportato una crescita di disuguaglianze in proporzione sconosciuta rispetto al Novecento. Già Debord diceva: mai l'ingiustizia è stata così enorme, e mai si è protestato di meno.

Questo è il «nuovo» di quella che si definisce sinistra modernizzata, della quale il Pd sarebbe il maggior esponente. Essa è rassegnata alla priorità dei capitali su ogni finalità politica, su ogni idea di società, su ogni altro diritto della persona o di un popolo. E' pentita di aver creduto e lottato per una società dove il capitale fosse abbattuto o addomesticato o quanto meno sottoposto a un controllo. E' questa rinuncia che si definisce modernizzazione, è la consegna al mercato come regolatore unico. «Tutto è cambiato», è la litania dei Ds, intenzionati a lasciare ogni aggettivazione non solo comunista ma «socialista» e «di sinistra». Ma con questo lascia anche la sua base sociale storica, quella dei lavoratori dipendenti, salariati, non solo operai e impiegati, ma le figure di quel che Gramsci chiamava «blocco storico della rivoluzione italiana», oggi i declinanti contadini e i crescenti addetti ai servizi e alla produzione immateriale, e gli intellettuali.

Quando ci si duole della crisi della politica sarebbe d'obbligo analizzare di chi e da quali masse avviene il distacco (si preferisce dire «dalla gente», «masse» e soprattutto «classe» essendo ormai termini innominabili). Eppure è agli ineguali interessi e ideali delle diverse fasce della popolazione che rispondono i partiti con i loro diversi programmi. Il Pci, e poi Pds e Ds si sono rivolti, a dire il vero con sempre minore determinazione, al lavoro e ai lavori diversamente dipendenti - sola forma di accesso al reddito e quindi alla possibilità di vivere - o alla forza di lavoro in formazione come i giovani e gli studenti. E mentre si erano battuti contro ogni tentativo di ridurne i diritti, prima di ogni altro all'occupazione e alla sua forza contrattuale, oggi considerano che essi debbono essere subordinati alla competitività dell'impresa, esponendoli al dumping che preme dalle zone dell'Europa e del mondo dove il lavoro è pagato di meno. E accettano che lo stato, e in genere la sfera politica, non possa più intervenire nella delocalizzazione delle imprese verso queste zone, lasciando indifesa la manodopera, braccia e cervelli che aveva conquistato maggiori diritti e compensazioni nelle zone socialmente più avanzate. L'Italia è stata fino agli anni '80 fra queste. Dopo di allora, anche per il Pci, Pds e Ds il diritto al lavoro e i diritti del lavoro sono passati in secondo piano rispetto alla competitività dell'impresa, che significa produrre a migliore qualità e a minor prezzo -, in Italia praticamente a minor prezzo data la scarsa propensione delle nostre imprese a investire sulla qualità. Il declino dei grandi partiti di sinistra viene prima di tutto dalla perdita di fiducia dei lavoratori nella loro capacità e volontà di difenderli. E se si obietta che, data la globalizzazione, difenderle è impossibile, il risultato è il medesimo o getta nel disorientamento e nella disperazione.

Non è questa la sede per approfondire il discorso, basti segnalare che nessuno è così sciocco da non saperlo, che su questo è caduto il progetto di costituzione europea e che su questo il futuro Partito democratico tace anche per imbarazzo. Difficile infatti scorgere nelle scelte qualche cosa che lo distinguerebbe da un centro moderato. Inclusa la rinuncia a qualsiasi politica economica: in queste settimane sono passati sotto il naso del governo e di quasi tutta la sua opposizione due operazioni supermiliardarie compiute l'una dall'Eni e dall'Enel - nate e cresciute con i soldi pubblici - che si sono comprati pezzi della russa Yukos per conto della russa Gazprom, e l'altra dalla Telecom, che doveva finire in mani messicane e statunitensi, lasciando sul gobbo dello stato oltre 80 mila dipendenti, che si dovrà in qualche misura assistere. Il Pd non esistendo ancora non poteva dir parola, ma i suoi genitori, ancorché in atto di chiudere i battenti, hanno trovato che era bene così, che al mercato la politica non si può opporre. Sostanzialmente che non può più esserci una politica economica e sociale. Politica addio.

Ma intanto i capitali impazzano, hanno scoperto il modo di crescere comprando e rivendendo se stessi, giganteschi tulipani di Galbraith, humus di razzie da parte di predatori feroci quanto transitori. E esistono i lavoratori dipendenti, anche coloro che si credono autonomi ma dipendono dai marosi sollevati dalle proprietà cangianti. E accanto a loro c'è un quarto della popolazione costituita da disoccupati, lavoratori precari e esclusi dal mercato del lavoro, diventati nuovi poveri. Chi li rappresenterà? Soltanto il sindacato, oltre e malgrado il governo e le ex sinistre?

Si intende che uno come il segretario della Fiom, Rinaldini, spieghi che, lui nato nel Pci, al Pd non potrà aderire. Ma avrà una grossa forza politica alle spalle o no? Perché non è ancora affatto chiaro se le sinistre che si pongono alla sinistra del futuro Pd, sia che provengano dai Ds sia da tempo fuori, intendono assumersi il compito di una rappresentanza aggiornata del lavoro, cioè quanto meno l'orizzonte di un capitalismo regolato, che è proprio il minimo dei minimi. Nessuna di esse, singolarmente, può riuscire in questa impresa, che comporta un'analisi in profondità del presente, delle figure che assume il salariato diretto o indiretto in seguito alle tendenze dei capitali mondiali, incrociati con gli interessi della sola superpotenza ereditata dal '900, gli Usa, e delle nuove che emergono nel terzo millennio, prima di tutte la Cina. Nessuna di esse da sola, senza coinvolgere le altre e i sindacati e i movimenti in Europa, potrà avere un peso qualsiasi su scala mondiale.

Che cosa aspettano per darsi questo ordine del giorno? E che aspetta - se posso avanzare un'opinione del tutto personale - il manifesto a fare di questo tema l'asse della sua campagna attuale? Perché ad esso si collegano, in forme inedite e mai esaminate dal movimento operaio del secolo scorso, i nuovi bisogni e le nuove soggettività che sono venute emergendo dopo il 1968, anche se non sembrano accorgersene, e i movimenti no-global. Si tratta di ben altro che misurarsi con le polizie, terreno sempre arretrato e perdente, cui finisce con il rivolgersi la nostra attenzione più emotiva. Si tratta di fare i conti con la gigantesca espansione del liberismo che pareva essere stato spiazzato alla metà del secolo scorso, e proprio in Europa. Senza contare troppo sulle sue contraddizioni, le quali - come dice giustamente Wallerstein - più che a guerre commerciali non possono portare, rialimentandosene sempre sulla pelle dei popoli.

Molti propongono cantieri, e alcuni - come il compagno e amico Pierluigi Sullo - si dolgono che il nome inventato da Carta gli sia stato sottratto. Ma se vuol dire che ci si deve mettere al lavoro in tanti, non me ne lamenterei. Se si intende invece che è ancora da discutere che cosa vada costruito, se ci può essere o no, e se sia augurabile, una via d'uscita dalle forme attuali della globalizzazione, se ci sia e chi ne sia il soggetto dirompente, se il «lavoro» sia ancora da difendere o se, come mi è capitato di sentire in un'università, non interessa più a nessuno, se insomma ogni sigla dice di aprirsi ma in concreto difende il proprio giardino, ci meritiamo in anticipo l'egemonia del Partito democratico nascituro, cioè, ben che vada, una delle fasi più noiose della storia d'Italia.

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