Il Fatto quotidiano, 8 aprile 2019. Manca la città ed è inevitabile che sia così, date le premesse. Ma se la memoria si facesse cultura e la cultura comunità, L'Aquila potrebbe dare l’ennesima, memorabile lezione di futuro. (m.b.)
“Tutto sommato è stata data una casa a tutti (…), però a noi manca la città, manca tanto la città”. Le parole, pacate e lucidissime, della consigliera comunale Carla Cimoroni dicono quel che c’è da dire su L’Aquila, a dieci anni dal terremoto. Non sono giorni facili, questi, per gli aquilani. Gli anniversari, e questo su tutti, sono pugnalate, separate da intervalli di silenzio e disinteresse nazionali lunghi un anno. E poi intorno al 6 aprile ecco l’assedio di giornalisti e tv, magari in cerca di “storie forti”, come si è sentita chiedere Antonietta Centofanti, guida morale (di spessore umano e lucidità politica straordinari) dell’associazione dei familiari delle vittime, che non cessa di lottare per la verità e la giustizia. In questi giorni sanguinano copiosamente ferite mai chiuse, e si riaccendono i sensi di colpa di quei decisori aquilani che – messi dalle spalle al muro dal cinismo irresponsabile di Berlusconi, Letta, Bertolaso – alla fine dissero sì alle New Town di cemento, che oggi sono a loro volta sfollate per un quinto a causa dei balconi che crollano, e del deperimento di quelle povere strutture mangia suolo.
Fu una decisione difficile, sfociata in un errore terribile: perché condannò la città storica, e separò le pietre monumentali dal popolo che dava senso e futuro a quelle pietre. E perché estese fino 4350 ettari la superficie (già prima enorme: 3000 ettari) insediativa dove vivono i 69.439 aquilani. La mappa, elaborata per l’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli da Andrea Giura Longo e Monica Cerulli (e presentata in questi giorni all’Aquila) dimostra che siamo così arrivati a 16 abitanti per ettaro: una densità “incompatibile con una decente condizione urbana” (commenta l’urbanista Vezio De Lucia), basti pensare che l’Aquila è ora la città italiana con più automobili pro capite, con conseguenze devastanti sulla qualità della vita. Paradosso nel paradosso, questa nuova dispersione ha oscurato quella storica: in quasi tutte le frazioni antiche dell’Aquila le case rimangono ancora a terra, e dove si ricostruisce il patrimonio pubblico lo si fa molto peggio che in centro: Italia Nostra denuncia il rischio di perdere i connotati storici di un luogo cruciale come Santo Stefano di Sessanio a causa di restauri inadeguati.
E, d’altra parte, non avendo ricostruito il centro storico per settori, avendo lasciato drammaticamente indietro la ricostruzione della città pubblica e non avendovi riportato le funzioni pubbliche e i servizi (sono aperti a tutt’oggi 60 negozi sui 1000 di dieci anni fa) si capisce che cosa vuol dire che, se ora ci sono le case (molte in vendita), “manca la città”. Non è che l’Aquila di prima fosse un paradiso: ma il punto è questo, il terremoto ha funzionato da acceleratore e amplificatore delle dinamiche che colpiscono tutte le città storiche italiane: spopolamento, gentrificazione (riduzione a quartieri monoclasse sociale, cioè nella città dei ricchi), trasformazione in quinte monumentali per turisti, messa a reddito con centri commerciali e improbabili parcheggi sotterranei fatti per pura speculazione.
Più in generale, andare all’Aquila vuol dire capire l’Italia. Il dato secondo me più sconvolgente del bilancio di questi dieci anni è che tra tutto quello che si è ricostruito non ci sia nemmeno una – dico una sola – scuola pubblica. Si studia ancora nelle strutture di emergenza, e bambini di dieci anni non sanno cosa sia entrare in una scuola che sia una ‘casa’ di tutti: se qualche storico del futuro si chiederà quale posto occupava la funzione della scuola nel progetto politico, e nella stessa coscienza di sé, degli italiani dei primi decenni del XXI secolo, ebbene troverà la sua sconfortante risposta all’Aquila.
Ma gli aquilani hanno una tenacia e una capacità di costruire il futuro che, proprio per il valore universale dei loro problemi, può essere di ispirazione per tutto il resto d’Italia. Le parole citate in apertura si trovano montate in un grande manifesto esposto insieme a moltissimo altro materiale documentario al presidio “Fatti di memoria”, che 24 associazioni hanno voluto tenere aperto in centro in occasione del decennale. È un modo efficace per dire che i cittadini dell’Aquila vorrebbero un centro permanente in cui costruire il futuro attraverso la memoria del passato: “Lo vorremmo così: un ‘museo della città’, un archivio-laboratorio dedicato alle 309 vittime, vitale per la comunità e attrattivo per chi è di passaggio. La vorremmo così la città della memoria e della conoscenza, prestigiosa nel mondo, inclusiva e accessibile per tutte e tutti. Perché la memoria è un ingranaggio collettivo: solo se la memoria dei sopravvissuti si fa cultura per le generazioni a venire, una comunità ha la possibilità di rinnovarsi”. Nel 2013 si era progettato un centro come questo, si sarebbe dovuto chiamare Ter.R.A, ma tutto si fermò.
Oggi quell’idea rinasce in Territori Aperti, un “Centro di documentazione, formazione e ricerca per la ricostruzione e la ripresa dei territori colpiti da calamità naturali” che sarà realizzato dall’Università dell’Aquila grazie ad un finanziamento di Cgil, Cisl e Uil. Un’ottima notizia: ma non basterà che sia fatto per i cittadini. Dovrà nascere con i cittadini, perché c’è davvero bisogno di partecipare e costruire un luogo dove storia, memoria collettiva e capacità di riscatto riescano a far rinascere una comunità.
Se sarà così, L’Aquila avrà dato a tutta l’Italia l’ennesima, memorabile lezione di futuro.
Per non perpetuare la logica emergenziale, in nome della quale tutto è consentito, serve una strategia lungimirante di contenimento del rischio sismico, all’altezza di un paese scientificamente avanzato. Su eddyburg abbiamo dato conto di una proposta autorevole che speriamo sia raccolta da chi ha a cuore l'interesse generale. (m.b)