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Aldo Tortorella
Una crisi che ci sfida
5 Febbraio 2008
Sinistra
Le conseguenze della rottura a sinistra del PD e i nuovi compiti della sinistra. Da il manifesto del 5 febbraio 2008

Siamo di fronte a un disastro ampiamente annunciato. La scelta del Pd di spezzare la coalizione di centrosinistra rompendo a sinistra per andare da solo alle elezioni, quale che fosse la legge elettorale, ha accelerato la caduta del governo e, a legge elettorale invariata, ha già praticamente consegnato il paese alle destre. Non voglio seminare scoraggiamento ma è inutile nascondere che andare divisi contro una coalizione che si è ricompattata è una gara assolutamente impari. Il che chiede non minore ma maggiore volontà e passione. Nella campagna elettorale bisognerà cercare di mettere tanto più impegno quanto più grave è il rischio non solo per la sinistra - che si vuole miniaturizzare - ma per il paese. Sono in discussione e in pericolo i principi fondamentali con una «legislatura costituente» annunciata da una destra in maggioranza estranea o ostile alla Costituzione stessa. Sotto attacco è stato ed è quel minimo di equità sociale e di autonomia nazionale che il centro-sinistra aveva programmato e sia pur stentatamente iniziato ad attivare.

La rottura a sinistra da parte del Pd è formalmente motivata dalla incoerenza delle coalizioni coatte. Lasciamo stare il fatto che coloro che oggi denunciano il sistema delle coalizioni coatte sono gli stessi che le hanno create con i vari sistemi maggioritari, determinando questo pasticcio chiamato pomposamente seconda Repubblica. Guardiamo, per capire, quale sia la «coazione» che si vuole togliere di mezzo. Il governo è caduto da destra, ma il Pd rompe con la sinistra, incolpandola della fragilità della alleanza. E' vero il contrario. La sinistra, sebbene con difficoltà e sofferenza, ha tenuto sino in fondo e nessuna delle sue rivendicazioni si è scostata dal programma pattuito. Si accusa la sinistra di avere protestato e di essere scesa in piazza. Semmai bisognerebbe ringraziarla per aver cercato di tener viva l'attenzione sulla condizione operaia, sul precariato, sull'estendersi della povertà, sul dramma della guerra; e criticarla, piuttosto, per non averlo fatto abbastanza o con sufficiente capacità di analisi e di proposta. In troppi, al centro, hanno aspettato la strage di Torino per ricordarsi, quando se ne sono ricordati, che lo sfruttamento non è una escogitazione ideologica. E non c'era bisogno di attendere gli ultimi dati della Banca d'Italia per sapere che i salari sono fermi e profitti e rendite galoppano da gran tempo.

Tanto più dopo queste conferme sulla condizione del lavoro il Pd poteva (e potrebbe ancora) scegliere la via di un confronto serio con tutta la sinistra, con l'obiettivo di presentare agli elettori una coalizione veramente nuova perché priva di ambiguità, con cambiamenti veri, testimoniati da scelte precise, di comportamenti politici, istituzionali, economici e morali capaci di contendere alla destra i troppi voti da essa conquistati tra le classi lavoratrici e i ceti popolari.

Il fatto che a questa scelta sia stata preferita quella opposta fa vedere meglio la natura sociale della crisi. Sia i ricatti prima, e poi il voltafaccia dei gruppetti alla destra (i Dini, i Mastella) sia la rottura del Pd con la sinistra corrispondono al rifiuto della maggior parte degli strati sociali più favoriti e dei gruppi dominanti di accettare il compromesso relativamente equo tra capitale e lavoro accennato dal programma originario dell'Unione. Non si tratta solo delle resistenze, vittoriose, contro la tassazione a livello europeo delle rendite finanziarie o delle lotte corporative di gruppi privilegiati ma di una mentalità di vecchia origine ripresa e rinvigorita dalla nuova destra: il fisco come sopruso, il falso in bilancio come colpa lieve, il controllo di legalità come intralcio e angheria. E, poi, il lavoro come pura merce, il salario come unica variabile dipendente, la sacralità di profitto e rendita, il sindacato come pezzo della impresa ma non come soggetto autonomo.

Dietro la crisi e la rottura a sinistra c'è anche - e sarebbe sbagliato non vederlo - il bisogno di corrispondere a un fastidio non sempre diplomatizzato, della amministrazione degli Stati uniti per alcune scelte del governo Prodi (il ritiro dall'Iraq, il rifiuto, almeno formale, di mutare il carattere attuale della missione militare in Afghanistan) oltre che per l'ascolto dato dalle sinistre a movimenti popolari come quello avverso all'estensione della base militare di Vicenza.

Tuttavia è inutile rimproverare al moderatismo di essere tale. Chi si ritiene di sinistra (come anche chi scrive) ha come primo dovere di guardare i difetti propri e di chiedersi se ha fatto tutto quanto poteva per frenare la deriva neocentrista e di destra. E' certo vero che all'origine dello slittamento del senso comune verso il centro e verso la destra vi è la sconfitta storica delle sinistre tradizionali. Ma vi è tuttavia una forte opinione e voglia di sinistra cui la sinistra che c'è non sa corrispondere. Non solo perché è divisa, ma perché una parte delle sue parole sono ormai incomprensibili e altre suonano contraddittorie con i comportamenti concreti.

Non è stato sbagliato vedere che nei nuovi movimenti (la critica alla globalizzazione, il femminismo della differenza, l'ecologismo, il pacifismo) vi è la potenzialità di una sinistra nuova, capace di leggere anche la contraddizione tra capitale e lavoro con la forza di una più compiuta visione della realtà. E non è stata un'impresa inutile cercare di raccordare il bisogno di soluzioni globali qualitativamente nuove per cui battersi, ma difficili e lontane, con la necessità di rispondere ai bisogni immediati, qui ed ora. E' un compito arduo, ma sarebbe un errore rinunciarvi per rifugiarsi nel sogno di reami inesistenti. Quale che sia la collocazione parlamentare una sinistra degna del suo nome deve porsi sempre dal punto di vista di chi vuol risolvere i problemi concreti in modo corrispondente ai valori per i quali dichiara di scendere in campo. Questo vuol dire una «cultura di governo»: ma meglio sarebbe dire una cultura della realtà. In essa non c'è contrapposizione tra la necessità di riappropriarsi di grandi temi abbandonati alle destre (la idea di libertà, la costruzione dell'individuo, la valorizzazione della creatività) con il bisogno assoluto di aderenza ai compiti immediati e concreti. Non ha senso una sinistra incapace di portare via la spazzatura. E ne ha ancora meno una che si proclami alternativa e abbia comportamenti non dissimili da quelli di tutti gli altri gruppi politici. Sarebbe un errore e una colpa per piccole logiche di gruppo evitare di corrispondere al dovere di accelerare i tempi per una sinistra nuova - unitaria, plurale - capace di pensiero alternativo e di attitudine al governo, che si presenti con una voce sola. Ne ha bisogno, insieme alle molte e ai molti che lo aspettano, la democrazia e il paese.

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