«Per la componente mainstream della tradizione comunista, il fare (e quindi la politica) non ammette incertezze sui presupposti fondamentali. Si è trattato di una vera e propria fede ideologica nella capacità e possibilità dell'azione umana di fabbricare la realtà, di fare la storia. E l'imperativo del fare poggia sulla certezza delle proprie ragioni e sulla teologia secolarizzata dei fini». Così in passato. Oggi, invece, «Nella disfatta elettorale della sinistra convergono ragioni e processi diversi. Tra questi, l'appannarsi di un pensiero che offra un'autonoma lettura della realtà, e tragga da qui senso ed efficacia dell'agire politico». In altre parole: dall'ideologia basata sulla «certezza dei presupposti» e degli obiettivi a un vuoto di senso sospeso su una base culturale incerta e su una prospettiva opaca. Si può e si deve leggere anche così l'attuale precipitazione della crisi della sinistra - fatta salva l'avvertenza, non secondaria, che la storia della sinistra italiana non coincide con quella della componente mainstream della cultura comunista, né con le sue certezze ideologiche e relativi scacchi. Ed è in questo scarto fra le certezze di ieri e le incertezze di oggi che guarda il testo elaborato da Maria Luisa Boccia, Giacomo Marramao e Aldo Tortorella (Pensare a sinistra. Proposte in forma di appunti) come traccia di discussione per il seminario che si tiene oggi e domani a Firenze. Una traccia aperta, in progress, che ben si addice alla pratica di aggregazione «a rete» propria del laboratorio «Pensare a sinistra». E che si segnala, fra le svariate riflessioni che punteggiano l'elaborazione della sconfitta, per un deciso spostamento dell'ordine del discorso che propone, e per alcuni intrecci che finalmente opera, primi fra tutti quello fra il livello culturale e il livello politico della sconfitta e quello fra la crisi della politica e la crisi del patriarcato e delle relazioni fra i sessi.
Porre in primo piano il livello culturale è tanto più necessario in quanto, come il testo argomenta, la sinistra di oggi non si trova ad avere a che fare con un vuoto, ma al contrario con un eccesso di sapere - «tanti saperi, tante analisi e conoscenze, ricche e competenti» - che però non orienta e non aggrega, e al contrario tende a segmentare e diasporare quello che chiamiamo sinistra: nome peraltro ormai incerto, come tutte le voci del suo vocabolario, da «lavoro, uguaglianza, libertà, differenza, diritti, pace, giustizia» a «capitalismo, democrazia, patriarcato, globalizzazione, laicità, etica, potere» a «comunismo/socialismo, pacifismo, ambientaliso, femminismo, culture glbqt, altermondialismo». Riconoscere che i significati di queste parole sono diventati incerti è già un primo passo per spiegare la «strana miscela di ovvietà ed enigmaticità» che sembra avvolgere oggi i discorsi della sinistra. Il che non comporta, sottolineano Boccia, Marramao e Tortorella, né l'accettazione della cultura del frammento, né viceversa l'evocazione nostalgica di una ormai impossibile sintesi unitaria. Occorre piuttosto salvare la costruzione di senso dando «al pensiero e al liguaggio una forma aperta e radicata nell'esperienza», ritrovando la capacità perduta di lettura della complessità sociale e delle connessoni d'insieme.
Il testo ci prova inoltrandosi nell'analisi di alcuni capitoli cruciali - capitalismo, globalizzazione, proprietà, liberismo, economia della conoscenza, lavoro, desiderio, consumo, violenza, democrazia - e proponendo per ciascuno di essi significative correzioni rispetto alle analisi correnti. Si tratta, ad esempio, di restituire al termine capitalismo il significato marxiano di rapporto sociale, di distinguere l'analisi del capitalismo contemporaneo da quella delle dinamiche storiche e culturali della globalizzazione, di guardarsi dall'assimilare i modi di produzione asiatici al capitalismo occidentale. Di articolare l'analisi del neoliberismo - per più di un decennio parola pass-partout della sinistra critica - rispetto al liberalismo e alla libertà, o meglio al «consumo di libertà», che la governamentalità liberale analizzata da Foucault comporta. Di reimpostare dalle fondamenta l'analisi del lavoro leggendo la sua femminilizzazione non come un particolare aggiuntivo ma come un cambio di paradigma che domanda un cambio di strategia per le donne e per gli uomini. Di riportare al lavoro, e al conflitto nel lavoro, l'attenzione da troppo tempo spostata sulla redistribuzione statale e sul tamponamento per via legislativa delle disuguaglianze. E ancora, di leggere l'egemonia dell'economia politica liberal-liberista in relazione alla mobilitazione e al consumo del desiderio di cui è capace. Di confrontarsi con l'economia della conoscenza con la consapevolezza che «oggi il senso è prodotto da un'industria, e produce plusvalore», il che modifica le analisi del passato sull'egemonia e sulla produzione di ideologia. Di aprirsi a una critica della democrazia che interrompa quella recitazione di sinistra del mantra democratico che non impedisce, come sappiamo dalla cronaca quotidiana, la degenerazione costante della democrazia reale e il capovolgimento delle sue promesse.
Per ciascuno di questi capitoli il testo fornisce una traccia importante di approfondimento. Due tuttavia sembrano i punti di particolare rilevanza per lo spostamento di metodo che suggeriscono. Il primo riguarda l'analisi della «violenza simbolica», ovvero di quella violenza implicita nella norma che garantisce la (relativa) stabilità e l'interiorizzazione dell'ordine simbolico come ordine «naturale»: qui il lavoro femminista sul simbolico torna prezioso, tanto più in un contesto in cui il patriarcato tenta di reagire alla propria crisi (o fine) indotta dalla libertà femminile con un rigurgito di violenza fra gli uomini e degli uomini sulle donne. Il secondo riguarda la scollatura fra dimensione simbolica e dimensione materiale che ha depotenziato il discorso della sinistra dagli anni '70 (ovvero dall'avvento del femminismo) in poi, scollatura da suturare tanto più in un momento in cui la destra marcia precisamente sull'incollatura fra le due dimensioni, come dimostra il suo discorso sull'insicurezza. Ma ricomporre materialità e simbolico altro non significa che ritrovare il nesso perduto fra obiettivi e soggettività, fini ed esperienza, progetto e narrazione. Rimettendo in funzione il circolo prezioso del lingaggio: saper ascoltare, e saper parlare.