Se tutto continuerà ad andare come sta andando, ad alcuni milioni di persone, che potrebbero e vorrebbero votare a sinistra nelle elezioni europee di giugno, sarà probabilmente presentata la scelta tra una sinistra unita comunista o una sinistra unita non comunista in concorrenza e in polemica tra loro (e, fino a un momento fa, ciascuna non troppo unanime al suo interno), con il probabile risultato di rendere entrambe meno efficaci. Si tratta delle stesse persone che frattanto avranno dato vita a una delle più intense stagioni di mobilitazione sociale per il lavoro e i diritti nella recente storia italiana, e avranno pertanto largamente meritato molto meglio.
L’appello per una lista unica deve quindi essere sostenuto e rilanciato con forza, fino a quando ci sarà un filo di speranza. Questi cittadini e questi lavoratori non possono continuare a essere delusi. Il regime autoritario di massa che è in corso di consolidamento non aspetta altro che quello al fine di estendere ancora di più la base mista di rassegnazione, risentimento, e micro-conflitto tra interessi immediati e più o meno urgenti, su cui il suo richiamo plebiscitario si fonda.
Dove e perché l’appello per la lista unica non è penetrato, non ha persuaso, ha suscitato reazioni negative forse evitabili? Certo, pretendere che suonasse immediatamente gradevole ai dirigenti e ai quadri di partito, cui si chiede esplicitamente di fare un passo indietro, sarebbe stato troppo. Ma forse non è stato sempre abbastanza chiaro che si può chiedere loro di farlo proprio perché la loro funzione è riconosciuta, le loro qualità intellettuali e morali anche, e proprio perciò è lecito aspettarsi molto da loro. Troppo spesso si è dovuto constatare un forse frettoloso ma forse anche evitabile fraintendimento dell’appello, come se si trattasse ancora dell’ennesima contrapposizione di una qualche società civile a una qualche politica degli “apparati”, o altre simili superficialità. Non così, certamente, è da intendere. E conviene continuare a chiarirlo senza stancarsi.
In realtà, quadri e militanti di partito più o meno a pieno tempo, più o meno volontari o professionalizzati, svolgono nel complesso una funzione preziosa per la democrazia, ciascuno più o meno coerentemente e più o meno bene, ma in ogni caso senza giustificare giudizi liquidatori generalizzati. Semplicemente, non sono superuomini né superdonne e non possono esercitare tutte le funzioni che sono da svolgere.
Queste persone non sarebbero sminuite, ma al contrario confermate nella loro autorevolezza, se contribuissero a sollecitare le innumerevoli energie e le innumerevoli qualità disponibili ad emergere così da rispondere su tutto il fronte alle esigenze precise che sono da riferire all’appuntamento di giugno: costituire una forte e largamente sostenuta rappresentanza dell’Italia del lavoro e dei diritti a Strasburgo, e richiamare al voto una frazione significativa di quella estesa quantità di cittadini che diserta le urne (aumentando finora con regolarità ad ogni elezione) così da cominciare a dare finalmente un segno elettorale in controtendenza rispetto al regime (e alla fantomatica opposizione parlamentare che si concede).
Osservando la curva storica della percentuale dei non votanti, si può concludere che la democrazia italiana ha perduto quasi un venti per cento di sostenitori, ossia di cittadini politicamente attivi, nel corso di poco più di una generazione. La tendenza è in crescita. I due raggruppamenti che si stanno formando separatamente a sinistra mediante trattative tra gruppi dirigenti dovrebbero spiegare come e perché queste loro iniziative abbiano probabilità di cambiarla.
Appare fortemente improbabile che due distinte liste di candidati, inevitabilmente composte secondo complesse operazioni di bilanciamento di gruppi di personale politico tra loro, avrebbero un tale potere. La domanda è: i milioni di cittadini e di lavoratori che si mobilitano nelle piazze da mesi – prima nel movimento di difesa della scuola pubblica e adesso anche nel sempre più ampio movimento di rifiuto a pagare la crisi del capitale – hanno speranza di conquistare qualcosa attraverso una rappresentanza politica frammentata e divisa, o una che sia forte e unita? Meglio ancora: se le domande di giustizia e di diritti che essi pongono in questa crisi hanno qualcosa di comune e di essenziale, perché la loro rappresentanza politica dovrebbe essere divisa? Chi è certo che, se consultati, vorrebbero essere divisi (in particolare, tra comunisti e non)?
Si tratta, appunto, di consultarli: di chiamarli, cioè a formare la lista che andranno a votare – una lista che rappresenti l’intera fortissima opposizione sociale al regime – attraverso elezioni primarie. Dare loro questa possibilità è ciò che appare lecito attendersi da dirigenti politici che tutti conosciamo e stimiamo.
Tutto ciò è qualcosa di meno rispetto alla nascita di nuove formazioni politiche, ma è anche molto di più. Bisogna infine prendere atto che la struttura dell’offerta di rappresentanza politica in Italia (il suo “sistema dei partiti”) è ancora caratterizzata da onde lunghe di assestamento, di durata e di intensità commisurate alla vera e propria catastrofe politica che la sconvolse negli anni novanta del secolo scorso. La lista unica non sarà certo una risposta definitiva a questo processo. È un progetto umile, e proprio per questo può avere una grande efficacia, prefigurando finalmente la casa di tutti coloro che sentono e cercano il lavoro come bisogno, diritto e dovere comuni a tutti, e intendono vivere in amicizia con la natura e con i popoli. Una casa che possa essere riconosciuta come propria da chi chiama tutto ciò comunismo e da chi preferisce chiamarlo altrimenti, in piena libertà e in piena fraternità.
Katciu-martel, un piccheiitio di spunti per ricminciare a pensare