Piccolo è bello oltre gli slogan significa una maggiore integrazione sul territorio fra gli aspetti produttivi, sociali, ambientali: un appello perché anche le politiche comunitarie lo recepiscano. La Repubblica, 6 marzo 2013 (f.b.)
Mentre l’Italia si agita in un vuoto di governo, dalla difficile soluzione, ogni giorno le persone e i loro bisogni autentici bussano alle porte della politica, con sempre maggiore fermezza e obiettivi
chiari. Duecentosettantasei organizzazioni non governative hanno posto forte e chiara, nei giorni scorsi, una questione fondamentale al governo dell’Europa: non siamo più disposti ad accettare che il denaro pubblico della Politica agricola comune (la famosa Pac) vada a finanziare pratiche agricole insensibili ai valori dell’ambiente, dei beni comuni, della protezione delle risorse irriproducibili, come le falde acquifere e la fertilità dei suoli.
Non è più ammissibile che i soldi di tutti gli europei sostengano la produzione agricola in quanto tale, senza che si prenda atto che è semplicemente immorale incassare denaro per inquinare, impoverire la Terra Madre e agire in modo insensibile a quanto, non dei semplici consumatori,
ma molti cittadini, legittimi titolari dell’erario, affermano. Perché non accetteremo oltre che la Pac aiuti chi può scegliere se adottare o meno pratiche ecocompatibili: la sostenibilità non è (più) un optional. I firmatari, con pacata sicurezza, dimostrano di saper distinguere il grano dal loglio e di non trascurare che la produzione del cibo per un continente con mezzo miliardo di abitanti non è un problema che si affronta con leggerezza. Ma questa agricoltura non può più vivere incurante degli effetti che i pagamenti diretti (la parte più consistente delle sovvenzioni, finora tutta determinata dalla dimensione della superficie aziendale) hanno determinato sull’ambiente, sul paesaggio, sui mercati mondiali, afflitti dalla concorrenza di derrate che, se non ci fossero i denari di Bruxelles, non si produrrebbero e non potrebbero essere vendute in giro per il Pianeta. Oltre il danno, una beffa per i paesi in via di sviluppo che devono competere con chi si vede una parte dei costi di produzione finanziati dalle istituzioni.
La nuova Pac non può semplicemente ridurre l’aiuto diretto. Deve collegarlo in modo inscindibile all’adozione di pratiche ecologicamente sostenibili: il percorso deve essere progressivo, ma a tappe certe e, se necessario, forzate. Un po’ di maquillage non accontenterà queste centinaia di sodalizi. E se a qualcuno tutti questi simboli e nomi possono sembrare i mille rivoli di una frammentazione, beh: si sbaglia. Questo è un virtuoso, colossale esempio di unità nella molteplicità, per l’affermazione del valore assoluto che attribuiamo alla terra che calpestiamo. Un po’ di pratiche «verdi», un po’ di greenwashing, come la chiamano gli Inglesi, non servirà a blandirci: esattamente come per la polmonite non serve l’aspirina.
Per questo, accanto alle misure di aiuto allo sviluppo rurale, che dovrebbero essere preferite sempre all’aiuto diretto e fra le quali sono presenti elementi positivi — come quelle che aiutano i giovani ad iniziare un’impresa agricola o i contadini a lavorare meglio, rispettando criteri di sostenibilità, incentivando la scelta preziosa del biologico — ci sono almeno due ottime misure che devono essere adottate se, come appare ovvio, non sarà possibile, di punto in bianco, prosciugare i finanziamenti «un tanto all’ettaro».
La prima riguarda la rotazione delle culture. Uno strumento semplice ed efficientissimo per mantenere la fertilità dei suoli è coltivare specie vegetali diverse, sullo stesso terreno, alternandole di anno in anno. Si riducono le malattie (che richiedono chimica per essere curate o prevenute) e il fabbisogno di certi elementi nutritivi (la stessa specie, infatti, richiede sempre gli stessi elementi, che vanno apportati concimando intensivamente), ma soprattutto si aumentano le rese e la qualità ambientale. Sembra l’uovo di Colombo e invece l’agroindustria intensiva, con aziende che anno dopo anno seminano sempre le stesse cose sugli stessi suoli, vede la rotazione delle colture come la peste: non si sviluppa il modello di business vincente diversificando, ci dicono, come se la terra fosse solo una grande catena di montaggio.
E allora, per darci il contentino, chi ha steso la bozza della Pac ha considerato ugualmente verde la «diversificazione», vale a dire: non la buona rotazione, ma la coltivazione in azienda di più cose, anche se magari, ciascuna di esse sempre sugli stessi appezzamenti, anno dopo anno. Non ci siamo.
La seconda proposta riguarda la taglia dei contributi. Non tutti gli ettari sono uguali, infatti!
La piccola agricoltura è più sostenibile, più attenta ai bisogni del territorio, spesso portata avanti in territori marginali e geologicamente fragili, più preziosa per conservare valori che vanno al di là del prezzo delle derrate. La piccola agricoltura, dal tempo dei Gracchi che lo capirono per primi, è la salute di una società sviluppata, mentre il latifondo è la degenerazione del rapporto con la Terra, che da madre diventa commodity.
Oggi si parla di porre un tetto: nessuno potrà avere più di 300mila euro di contributo, anche se gli ettari della sua azienda gli darebbero teoricamente diritto a più soldi ancora. Ma non basta.
Chiediamo che con l’aiuto diretto sia pagato «a scalare» un premio extra: il 100% della misura stabilita per i primi 5 o 10 ettari e poi a decrescere fino allo 0%, oltre una certa estensione. Naturalmente questo è un esempio e misure differenti potrebbero essere valutate per produzioni diverse, in diversi Paesi, ma il principio dovrebbe essere chiaro: ci fidiamo di più di una moltitudine di piccoli agricoltori che un pugno di latifondisti. Due idee semplici, che condividiamo con chi ha a cuore il futuro agricolo vero del Vecchio Continente, come le associazioni riunite in Arc2020: non voliamo alto, ma proponiamo misure concrete per fare sì che solo l’agricoltura che piace e serve alla vita di tutti riceva i soldi che sono di tutti. Di questi tempi, ci pare una necessità rivoluzionaria!