Pubblichiamo questa testimonianza di un protagonista della politica e dell'ambientalismo veneziano, con cui non sempre siamo d'accordo ma di cui condividiamo pienamente l'accorata denuncia delle colpe dei singoli e delle istituzioni chiamati in causa
Lettera aperta
E’ una storia che ri-comincia alcuni anni fa, nel 2005, ma che rinvia a qualcosa che è accaduto in tempi più lontani, nel 1990 a Porto Marghera, e che oggi sta per giungere a un primo epilogo, dopo un lungo processo presso il tribunale di Roma, nel quale sono coinvolto come imputato. Rischio di essere condannato a pagare un milione di euro più le spese legali, somma che (perfino in dimensioni molto minori di queste) naturalmente non possiedo, con tutte le conseguenze del caso a mio carico. A scanso di equivoci, anticipo subito che lo scopo di questa mia nota è solo di far conoscere una storia che ha implicazioni pesanti di natura generale, non solo per me. Per quanto riguarda la mia vita, in ogni caso, cercherò di arrangiarmi. Qui vi chiedo soltanto, per favore, di leggere con un po’ di attenzione il racconto che segue.
Di fronte alle proteste, il direttore del servizio di Igiene pubblica dell’Ulss 36 reagì contestando le valutazioni espresse dagli operai sottoscrittori della petizione e dagli ambientalisti e, anzi, presentò un esposto alla Procura di Venezia perché si sarebbe contribuito a “diffondere disinformazione per creare allarme tra la popolazione”. L’esposto fu archiviato.
Di questa storia si tornò a parlare, appunto, nel febbraio 2005 quando L’Espresso, ricordando quella vicenda, citò una relazione dell’Ulss 36 datata 28 febbraio 1990 nella quale, analizzando la condensa dei fumi usciti dal forno SG31 in due momenti diversi, 19 gennaio e il 7 febbraio 1990, si conferma la presenza di uranio. L’Espresso riportò anche il commento di Gianni Mattioli, allora docente all’Università di Roma, il quale, sottolineando come “le concentrazioni rilevate dall’Ulss 36 sono certamente preoccupanti e superano le percentuali allora fissate per legge”, anche considerando che i fumi del camino “prima di toccare terra subiscono una significativa diluizione”, sostenne che “nessuno può negare che sia stata smaltita una sostanza radioattiva. Anzi, è necessario aprire un’inchiesta per capire che tipo di uranio fosse, visto che l’Ulss non lo indica. Si trattava di combustibile esaurito di reattori? O di uranio impoverito? O, ancora, di combustibile nucleare?”
Nel febbraio 2005 ero Prosindaco della città (lo rimasi fino all’aprile di quell’anno) e consigliere regionale (lo sarei rimasto fino al 2010). In questa duplice veste chiesi a chi di dovere spiegazioni su tale vicenda, di cui come si è visto mi ero già occupato molti anni prima, alla luce degli elementi nuovi che L’Espresso aveva pubblicato. Presentai, dunque, un’interrogazione al presidente della giunta regionale del Veneto, nella quale, dopo aver sommariamente riassunto la vicenda, chiedevo alla giunta “se è a conoscenza dei fatti; qual è l’entità e la natura dell’inquinamento radioattivo, se intende rendere pubblico il referto dell’Ulss tenuto segreto per 15 anni”.
La pubblicazione dell’articolo e la mia interrogazione (oltre a una, analoga, presentata alla camera dei deputati dall’allora parlamentare Luana Zanella) provocarono l’immediata reazione dell’ex responsabile del servizio di igiene pubblica dell’Ulss, il dott. Corrado Clini, che nel frattempo, dall’inizio del 1990 si era trasferito a Roma al Ministero dell’Ambiente, del quale diventerà e resterà a lungo Direttore generale (e, di recente, com’è noto, anche ministro, fino all’aprile 2013). Clini contestò in toto, con dichiarazioni riprese dalla stampa e dagli altri media, la ricostruzione dell’Espresso e contro il settimanale e contro gli autori delle due interrogazioni in sede regionale e parlamentare, il sottoscritto e Luana Zanella, presentò querela in sede civile presso il tribunale di Roma.
Al dottor Clini, sia il sottoscritto sia Luana Zanella, risposero, con un comunicato ufficiale, che nelle interrogazioni in Regione e in Parlamento il suo nome veniva citato solo a proposito delle critiche che egli aveva rivolto, all’epoca dei fatti, agli ambientalisti e che nessuna insinuazione o affermazione esplicita era rivolta nei suoi confronti e ogni riferimento a fatti specifici era posto al condizionale, quando non supportato da precisi referti e che dunque il solo fine dei nostri atti istituzionali era la piena conoscenza di quanto avvenuto intorno alla vicenda Jolly Rosso, cosa in seguito ribadita in diverse occasioni.
Si giunse quindi, nel 2010, all’apertura del processo nel quale, come imputati, eravamo rimasti soltanto il sottoscritto e il giornalista Riccardo Bocca autore del servizio pubblicato dall’Espresso. Nel frattempo era mutata la giunta regionale, ora presieduta da Luca Zaia, e il sottoscritto, non più consigliere regionale, provvide a segnalare alla Regione la necessità di procedere secondo l’indicazione della Corte Costituzionale e secondo la stessa prassi seguita dalla Regione da sempre, volta a tutelare il diritto dei suo eletti a porre, attraverso interpellanze, interrogazioni e altri atti ispettivi, qualunque domanda si ritenga necessaria per conoscere una data situazione e un dato problema.
La Regione, tuttavia, non ha mai provveduto a sollevare il conflitto di attribuzione, non ha mai difeso, in questo processo, il diritto dei propri rappresentanti - che sono, nella regione, rappresentanti del popolo esattamente come i parlamentari lo sono a livello nazionale - a essere tutelati nelle proprie prerogative. Le quali non sono affatto dei privilegi ma rappresentano la garanzia che, in nome dei cittadini tutti, si possano porre anche le domande più scomode, anche nei confronti di chi è potente, persona o istituzione che sia.
La Regione, a differenza di come si è sempre comportata in passato, ha lasciato aprire il processo, lo la lasciato continuare e infine chiudere, senza muovere un dito. Creando, così, un precedente pericolosissimo sia sul piano istituzionale e formale sia su quello sostanziale. Se passa il principio che si può querelare un’interrogazione, un atto ispettivo (insieme alle dichiarazioni che lo illustrano), si crea un vulnus letale nella rappresentanza e nei suoi diritti e poteri. Ignoro il motivo di questa scelta: si può pensare a sciatteria oppure a precisa volontà politica di discriminare il sottoscritto o ad altri motivi ancora. L’effetto è che comunque viene minata la pienezza del mandato istituzionale e che uno strumento indispensabile per l’accertamento delle verità viene svuotato.
Ora, infine, sto aspettando la sentenza, che dovrebbe giungere a giorni, se non a ore. L’aspetto con un carico di vera angoscia determinato sia dal rischio concreto - pagare una cifra esorbitante, che non possiedo, e restare magari per altri anni inchiodato a un processo che anche in caso di assoluzione continuerebbe in Appello e in Cassazione, con altre spese e altre complicazioni, e con rischi immutati - sia dalla prospettiva di veder dissolversi, per l’ignavia o a causa della complicità attiva della Regione Veneto, forme consolidate di tutela per chi, per ruolo istituzionale (come i consiglieri o gli amministratori) o per attività professionale (come i giornalisti), ha il diritto e il dovere di porre anche le domande più scomode, di continuare a cercare la verità su vicende in cui siano in gioco l’interesse pubblico e il diritto a sapere di tutti i cittadini.