Sono rimasto sorpreso - e anche un po’ deluso - dalle reazioni a una mia intervista sulla questione ambientale all’Elba che preludeva alla presentazione del mio ultimo libro Nel nome del parco, un anno sull’arcipelago appena uscito per Effequ.
Avrei voluto suscitare un dibattito ragionato, ma il grido della pancia precede spesso la voce della ragione, anche negli individui più moderati. Non parliamo poi dei portatori di interesse, di chi ignora le questioni ambientali o di chi è in malafade.
Ma andiamo con ordine. Sono tre anni che faccio presenti le mie preoccupazioni sul futuro dell’arcipelago, se i suoi amministratori non sceglieranno con coraggio la strada della protezione ambientale, rinunciando a quella bulimia costruttiva che ha caratterizzato l’isola per decenni. Non ho detto che l’Elba è cementificata, ma che rischia grosso, visti i numeri, come quelli delle sanatorie e delle seconde case. Concetti ampiamente condivisibili, mi pareva, eppure c’è ancora chi continua a sostenere che qui si è costruito poco e che si dovrebbe puntare al modello Malta, un’isola ridotta a una piattaforma di cemento sul mare. E sono almeno tre anni che gli amministratori elbani insorgono, offesi non si sa bene da cosa, e che non rispondono nei contenuti, ritenendo
antipatiche le forme.
Oggi però qualcosa è cambiato e inviterei i sindaci dell’Elba a prestare attenzione ai segnali che provengono dalla società civile e dal resto della Regione Toscana e del paese. Infatti il rischio da me paventato non è solo una mia versione (dettata da chissà quale interesse di parte), ma ormai qualcosa di condiviso, a partire dalla “gente”: i lettori de Il Tirreno, per esempio, che mi invitano a non mollare; chi partecipa a blog tradizionalmente a me ostili, che oggi si dividono anche a mio favore; i turisti, che mi mandano decine di mail o messaggi su faceboock dello stesso tenore; gli intellettuali toscani e non, che sostengono le mie stesse posizioni (Settis per tutti); i partiti del centro-sinistra, che, fatta eccezione per il Pd elbano, si schierano in blocco con me. Anche il direttore de Il Tirreno Bernabò parte dalle mie considerazioni per un editoriale di prima pagina (intitolato significativamente “La guerra del mattone”) in cui, al di là dei toni, si invita a scegliere un modello di sviluppo meno legato al cemento.
E ancora: non solo Alberto Asor Rosa, ma anche il nuovo assessore all’urbanistica regionale Anna Marson, con il sostegno del neo presidente Rossi, esprimono concetti simili ai miei, facendo intravedere una sterzata a 180 gradi (”troppa autonomia costruttiva ai comuni”): il periodo di Conti sembra per fortuna chiuso per sempre. E un esponente importante del Pd livornese, il sindaco di Piombino Gianni Anselmi, dopo un pubblico dibattito in cui ho illustrato lo stesso rischio sulla costa, mi ringrazia e raccoglie il mio invito ad avere più coraggio nella costruzione di distretti di qualità ambientali in Toscana.
Tutti costoro sostengono pubblicamente gli stessi concetti espressi da me e che Legambiente arcipelago irrobustisce da anni con dati e esempi. Il presidente del Parco dell’arcipelago non è più solo, mi pare.
Qualche eccezione c’è, va riconosciuto, anche fra gli amministratori elbani: sostanzialmente il sindaco di Portoferraio mi da ragione sul passato e dice che i nuovi strumenti urbanistici non permetteranno più quegli scempi: bene, questo lo vedremo nel tempo. Il sindaco di Capoliveri, che non mi muove critiche dirette, o quello di Marciana che addirittura non si pronuncia affatto (ben sapendo che l’Ente Parco è forse l’unico in grado ancora di “aiutare” i Comuni) o quello di Rio nell’Elba, che non si sbilancia. Ma c’è anche qualche consigliere del Parco che mi concede “filosoficamente” ragione (è già qualcosa) e un ex sindaco del Giglio che mi difende a spada tratta. Qualche crepa nella diga.
Insomma si riconosce che, se in Italia si consumano 250.000 ettari all’anno di territorio, una parte la fa anche la Toscana (che da sola ne brucia quanto il Regno Unito) e, per forza di cose, anche l’Elba. Certo è più comodo sentirsi dire che tutto va bene e che non bisogna cambiare rotta: ma l’impressione è che rimarrano in pochi, asserragliati come quei giapponesi che non volevano rassegnarsi alla sconfitta in guerra e che sono rimasti per anni nascosti nella giungla. Per far finire l’età della pietra non è necessario che finiscano le pietre. Oh, è una metafora, che nessuno si offenda, vi prego.