L’Italia si dà una legge “organica” sulla pianificazione del territorio, buona ultima fra le nazioni europee, e con un ritardo di quasi tre lustri sui primi tentativi di riforma, nel pieno della guerra mondiale. Alcune delle (poche) letture storiche sulla genesi della legge urbanistica attribuiscono tra l’altro proprio al clima anomalo generato dal conflitto il merito dell’approvazione, che varie correnti politiche avversavano apertamente, sin dal primo tentativo parlamentare del 1933.
Il testo che si approva è così in gran parte più “legge degli urbanisti” che “legge urbanistica”, nel senso che propone un’idea di città forse razionale ed equilibrata, ma espressione del solo ceto professionale emerso dalle facoltà di Architettura, di Ingegneria e dalle strutture corporative che lo rappresentano: non certo di altre importanti componenti sociali, per quanto elitarie.
La stessa architettura generale, che dalla dimensione territoriale vasta, a quella della città, arriva sino alla definizione spaziale del piano particolareggiato, appare più come il frutto di una discussione emersa da convegni teorici e commissioni di concorso, che derivata dalla dialettica fra le esigenze di governo dell’assetto territoriale e i complessi intrecci degli enti locali, della loro organizzazione interna, delle competenze reali e circoscrizioni amministrative. Curiosamente, proprio nello stesso articolo del 1928 in cui si tratteggia la futura “gerarchia dei piani”, Gustavo Giovannoni ricordava di prestare la massima attenzione alle “provvidenze amministrative e combinazioni finanziarie”, ovvero enti locali e forze economiche. Senza questa centralità, qualunque piano rischiava di rimanere sulla carta, o peggio di far danni pur con le migliori intenzioni.
Ma è proprio con questi presupposti che nasce, nel 1942, la legge. E una delle principali difficoltà degli urbanisti, a guerra conclusa e nel nuovo contesto dell’Italia democratica, della Costituente, delle Regioni, sarà quella di cercare la legittimazione sociale che alla legge in gran parte manca. Significativo il fatto, ad esempio, che un esponente della Democrazia Cristiana inaugurando ancora a metà anni ’50 un convegno ideologico del partito sui piani territoriali, li definisca candidamente una “idea di alcuni architetti”. A riprova del vizio di fondo di una legge ottima, ma che fatica e faticherà ad imporsi come prassi comune, “idea di città” condivisa.
I testi – d’epoca e non - che compongono la cartella dedicata alla Legge Urbanistica del 1942, sono scelti per la loro capacità di ricostruirne alcuni punti salienti riguardo al percorso culturale, tecnico, dei soggetti via via impegnati nella sua definizione, e infine qualche cenno al passaggio dall’Italia fascista al dopoguerra.
Fabrizio Bottini, Urbanisti e Legge Urbanistica (da Storia dell’Architettura Italiana: il Primo Novecento, Electa 2004) riporta brevemente il percorso culturale che dagli anni ’20 all’approvazione della Legge porta gli urbanisti ad imporre un proprio modello, certamente valido ma non pienamente condiviso da parte del ceto politico
Vezio De Lucia, La Legge Urbanistica del 1942 (da Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2001) ripercorre l’evoluzione normativa nazionale e i piani regolatori più significativi, che contribuiscono a costruire la struttura della Legge
Virgilio Testa, Politica e legislazione urbanistica: cause di errori urbanistici e possibili rimedi (Urbanistica n. 1, 1935) descrive lo “stato dell’arte” disciplinare a metà anni ’30, dopo il rinvio del progetto di legge del 1933 e nel pieno del dibattito sul futuro della città e del territorio italiani
Vincenzo Civico, Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione (Critica Fascista, 15 maggio 1942) alla vigilia dell’approvazione della legge passa in rassegna i grandi problemi del rapporto fra organizzazione territoriale e governo dello sviluppo economico alla scala vasta
Alberto Calza Bini, Il Nuovo Ordine Urbanistico (Urbanistica n. 5, 1942) espone le prospettive – e i problemi - che si aprono per la disciplina e le decisioni, dopo l’approvazione della legge
Giovanni Ortolani, Legge Urbanistica e deurbamento (Il Rinnovamento amministrativo, n. 9, 1942) si sofferma sul significato e le implicazioni dell’articolo (1) e le sue intenzioni di “frenare la tendenza all’urbanesimo”.
I cenni sul Dibattito parlamentare tra fascismo e Costituente (Camera dei Deputati, Segreteria Generale, Ricerca sull’Urbanistica– Parte I, Servizio Studi e Inchieste Parlamentari, Roma 1965) rendono conto sia del perdurare di alcune opposizioni politiche, sia dell’articolazione degli interessi con cui la legge viene ad interferire
Ancora a dodici anni dall’approvazione, e dopo il tumultuoso periodo dei piani di ricostruzione, in pieno boom economico, la Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici, Istruzioni per la Formazione dei Piani Regolatori Comunali: Generali e Particolareggiati (1954), stimola le amministrazioni locali ad applicare la legge del 1942