Il manifesto, 30 ottobre 2013
Tanti discorsi, tante polemiche, sempre più uguali a se stessi. Da quanto tempo? Almeno da vent'anni, il tempo della lenta agonia della sinistra italiana (e non soltanto). Ora il dibattito impazza - che novità - sulla legge elettorale, con gli ultimi proclami del sindaco di Firenze contro il proporzionale degradato a fabbrica di ammucchiate. E sulla povera Costituzione del '48, non abbastanza sfigurata e tradita. Della quale si intende abbattere il presidio procedurale, come se non fosse proprio quella la prima regola da salvaguardare, come se non incombesse il rischio di creare il più velenoso dei precedenti, che già domani altri potrebbe legittimamente invocare per la spallata definitiva.
Oppure si parla della crisi e delle sue conseguenze rovinose per milioni di individui, che sono poi le rovinose conseguenze di questa forma di società, in cui il pubblico è rigorosamente asservito al privato. Fingendo - tutti: dal presidente della Repubblica all'ultimo cronista - di ignorare che la crisi non è un'anomalia o un incidente di percorso, ma il prodotto più tipico del meccanismo che presiede alla riproduzione del modello. Nella fattispecie, del fallimento di finanziarie e banche specializzate nella speculazione sulla pelle degli ultimi e poi salvate a spese dello Stato, con la più spettacolare socializzazione delle perdite private che la storia del capitalismo ricordi. Se non ci fosse stata, la si sarebbe dovuta inventare questa crisi. Occasione preziosa per assestare alle masse degli ignari e dei subordinati l'ennesimo colpo basso e per inchiodarle alla colpa di «aver vissuto al di sopra delle loro possibilità». Di qui il lasciapassare per altri colossali saccheggi attraverso la leva fiscale, le privatizzazioni, i nuovi tagli al reddito e ai diritti sociali, l'aumento dell'orario di lavoro, l'abbattimento dei diritti e delle tutele, la riduzione dell'occupazione...
Si dice da più parti, simulando pensosa solidarietà, che mai la politica è stata tanto distante dalla vita reale, dai problemi, dalle ansie e dalle difficoltà dei più. E intanto si continua come niente fosse a sfornare minacce travestite da promesse. Ormai la "gente" non sa più che pensare, è sin troppo evidente. C'è chi ancora crede in qualche grillo parlante, che minaccia e lusinga. Chi, nauseato, ha staccato la spina. Chi magari seguita a onorare antiche appartenenze, più per omaggio al proprio super io che per convinzione. Ma è evidente, ogni giorno di più, che non c'è partita. La cosiddetta politica viaggia alla velocità di un accelerato. La crisi - che è sociale e delle istituzioni; morale e della speranza; economica e delle relazioni tra le persone - a quella di un meteorite. Non sono Cassandre quelle che ripetono che stiamo seduti su una santabarbara. È la pura verità. Di questo passo, o salta in aria l'euro o salta in aria direttamente l'Europa. E sarà l'inizio di un domino inarrestabile. E non sono Cassandre nemmeno quelle che mettono in guardia dalla marea montante dei populismi. Il ventre delle nostre società ribolle di pulsioni retrive. La politica ha rinunciato da decenni a civilizzarle. Da quando si è assegnata il compito di aprire la strada al mercato, che della civilizzazione non sa che farsene, anzi la vede come il fumo negli occhi.
Per questo servirebbe, oggi più che mai, uno scatto, un gesto che interrompesse finalmente questa litania di formule stanche e squarciasse il velo dell'ipocrisia. Non è vero che non si sappia che cosa si debba e si possa fare, che cosa milioni di persone desiderano, sentendo che si tratta dei loro diritti violati. Molti professionisti della politica - molti di quelli che si pensano in qualche misura di "sinistra", ovunque collocati - sanno ancora bene di che cosa si tratta. Come lo sapevano i loro predecessori fino a un passato tutto sommato recente, se è vero che questo paese ha saputo malgrado tutto camminare lungo una strada di sviluppo civile sino ai primi anni Ottanta. Contrastato, ma civile. Riuscendo a combattere contro poteri arcaici radicati.
Redistribuire la ricchezza, in primo luogo. Perché l'Italia è ancora molto ricca, solo sempre più ineguale e ingiusta. Tornare a programmare sviluppo, spesa produttiva e investimenti, cosa che solo il pubblico può fare all'altezza delle necessità di un paese in declino. Puntare su un grande programma di piena occupazione per la manutenzione del territorio e delle città, per il rilancio della scuola e dell'università pubblica, della sanità pubblica, dei servizi alla persona, delle infrastrutture materiali e immateriali. E per questo farla finita, una volta per tutte, con lo scandalo assoluto di un gigantesco furto perpetrato a danno del fisco da grandi evasori ed elusori che invece la politica coccola e remunera, pagando con gli interessi (quanto incide il servizio del debito sulla crescita esponenziale del debito stesso?) ciò che sarebbe dovuto in forma di imposte su grandi patrimoni, profitti e rendite. Non è vero che non si sappia tutto questo. Basta frequentare un qualsiasi gruppo, leggere qualsiasi rivista, seguire qualsiasi convegno che la sinistra promuove da anni a questa parte per toccare con mano importanti convergenze di analisi e propositi. E non è nemmeno vero che non lo si potrebbe fare, se lo si volesse. Pur in presenza dei vincoli iugulatori europei, di cui peraltro l'Italia potrebbe imporre la riscrittura. E comunque non è vero che - se ci si battesse con coerenza, a viso aperto per un programma di questo genere - nulla cambierebbe nello stagno della politica italiana. È vero il contrario. Si determinerebbe un terremoto, che spazzerebbe via nani e ballerine, sepolcri imbiancati e profeti di finti tsunami.
Quel che è mancato sinora è il coraggio. E la generosità. Ed è questa la maggiore responsabilità di chi - capopartito, capocorrente o capopopolo - potrebbe dire basta una buona volta a questo stato di cose, e muoversi senza riserve per innescare un processo che basterebbe poco a mettere in moto. Ci sono oggi dieci, forse quindici persone in Italia - inutile fare i nomi - che avrebbero, per ruolo o per virtù personali, la possibilità di produrre una rottura nella tendenza verso l'agonia del paese. Che potrebbero, insieme, trasmettere al paese il messaggio di fiducia e di determinazione di cui c'è urgente bisogno. Mettendo da parte calcoli di bottega e cure personali. E scommettendo sull'immenso patrimonio di forze, di intelligenze, di risorse morali che il popolo della sinistra italiana, oggi disperso e depresso, ancora possiede.