Un commento alla tesi di M. Assennato pubblicato sul manifesto (22 giugno 2018) sulla pianificazione pubblica nel sistema socio-economico corrente e sul ruolo degli urbanisti.
Ho letto con molta attenzione l’articolo di Marco Assennato intitolato «Il miraggio della pianificazione nel sacco di Roma» (il manifesto, 22 giugno 2018, p.11) e vorrei contribuire in qualche modo ad una discussione delle sue conclusioni.
Richiamando anche precedenti testi di Bevilacqua e Scandurra, Assennato esprime sinteticamente una condivisibile valutazione dell’urbanesimo attuale, condizionato dai dominanti interessi dei proprietari fondiari, dei costruttori e delle banche, chiudendo il suo testo con le frasi: «La pianificazione pubblica, in un sistema che si è fatto esso stesso critico, è solo cattiva ideologia. Ma dentro alla crisi del piano si può e si deve costruire conflitto e sapere. Ha qualcosa da dire, su questo, l’urbanistica? Altrimenti, certo, è morta».
Confesso innanzitutto di non capire in che senso il “sistema” si sia fatto oggi “critico”. Se si tratta delle condizioni sociali e culturali conseguenti al succedersi di crisi del capitalismo, forse la notazione è un po’ banale. Io attribuirei all’espressione “farsi critico” significati connessi con consapevoli processi analitico- valutativi basati soprattutto su categorie concettuali e valori. E perciò mi sembra davvero strano attribuire oggi al “sistema” una qualificazione del genere. Ma forse son io che non ho compreso bene l’intento dell’autore.
È la tesi di fondo sulla pianificazione, però, che mi lascia più che perplesso. Mi sembra che il ragionamento di Assennato sia schematizzabile così: i piani urbanistici odierni sono soltanto strumenti organici al governo capitalistico del territorio, in particolare nelle aree metropolitane; meglio evitare di impegnarcisi; dedichiamoci invece, da urbanisti, a leggerne le contraddizioni per incrementare consapevolezze e conflitti sociali. Non capisco perché mai un atteggiamento del genere debba valere solo per gli strumenti urbanistici. Anche tutte le altre forme di organizzazione collettiva sono oggi sostanzialmente condizionate dal dominio dei meccanismi capitalistici: cosa dovremmo fare, astenerci dalle competizioni elettorali, dalla dialettica su leggi e bilanci, dal confronto sulle politiche locali, riservando ogni nostra energia alla didattica del conflitto in vista di rivolgimenti sociali palingenetici? O non dobbiamo, invece, continuando a scomporre e smascherare ogni messaggio mistificante, utilizzare anche ogni opportunità per mettere a frutto gli spazi, talora interstiziali, talaltra più cospicui, aperti dalle contraddizioni della gestione capitalistica allo scopo di
contrastare gli interessi speculativi particolari e sostenere i diritti collettivi ? Quelli, ad esempio, scritti nella Carta Costituzionale e troppo spesso negletti o compressi?
Proprio i piani territoriali ed urbanistici rappresentano occasioni per cercar di dare concreto spessore alla valorizzazione sociale di quei beni comuni – paesaggio, ambiente, beni culturali, partecipazione – che Assennato sembra invece ridurre a vaghe icone consolatorie da nuove liturgie escatologiche.
È forse venuto il momento di chiedersi se simili atteggiamenti aristocratico-massimalistici non abbiano anch’essi qualche responsabilità nella recente evaporazione della sinistra politica, accanto a quelle, beninteso spaventosamente maggiori, di chi ha semplicemente introiettato l’ideologia, gli obiettivi e gli strumenti del neo-liberismo. Sono convinto che sia oggi sempre più necessario, per chi militi ancora nella sinistra, impegnarsi in modo consapevolmente articolato su tutto il ventaglio di possibilità, alimentando adeguate visioni strategiche alternative, ma senza opportunisticamente abbandonare le trincee dello scontro quotidiano. Anche per tenere davvero insieme teoria e prassi.