Il manifesto, 12 ottobre 2014
Insomma, è proprio il caso di dirlo: molto rumore per nulla.
Dopo lo scontro sulla «riforma» del Senato, ora di nuovo, sul lavoro, la minoranza Pd inghiotte il rospo. La sinistra interna (3 eccezioni su 26 confermano la regola) si è piegata al ricatto della fiducia. Come se un ricatto costituisse un alibi, come se la debolezza fosse una ragione. Ma se lo scorso agosto si trattò forse di un imprevisto, adesso siamo a un copione sperimentato, del resto conforme alla sortita di Bersani di qualche giorno fa. L’avviso sulla lealtà alla «ditta» – peraltro ribadito anche da ultimo – non fu dunque una voce dal sen fuggita, ma il previdente annuncio di quanto era già intuito, assunto, metabolizzato.
È stata una scelta grave in un passaggio strategico. Renzi ha aperto la guerra interna nel Pd su materie cruciali. La modifica della Camera Alta stravolge l’architettura costituzionale e mina alle fondamenta la rappresentanza democratica, alterando la natura dello Stato. L’attacco ai diritti essenziali del lavoro subordinato colpisce il cardine della Repubblica antifascista, oltre che la ragion d’essere di una sinistra che possa legittimamente dirsi tale. Non si tratta di scelte improvvisate, e non è casuale che su questi terreni il «capo del governo» abbia deciso di giocarsi la partita. Sfondando sulla divisione dei poteri e sui diritti del lavoro, mortificando il dissenso e sfottendo le organizzazioni sindacali, Renzi intende mostrarsi in grado di guidare il «cambiamento»: di svuotare la Costituzione del ’48 e di varare una nuova forma di governo funzionale alla sovranità del capitale privato.
Solo chi avesse perso qualsiasi capacità di giudizio potrebbe sottovalutare la gravità di quanto accade. Nel giro di pochi mesi viene prendendo vita un regime autoritario nel quale il capo della fazione prevalente potrà controllare tutti gli snodi della decisione politica. E si viene regredendo verso un’oligarchia neofeudale in cui il lavoro è senza garanzie, precarizzato nella radice del rapporto contrattuale, quindi ricattabile in ogni momento e destinato a salari sempre più bassi. Nemmeno manca, per i palati più esigenti, il grazioso sarcasmo delle «tutele crescenti».
In tale scenario non incombe sui parlamentari democratici alcun vincolo politico o morale di lealtà verso il partito e il gruppo, né, tanto meno, verso l’esecutivo.
Non solo perché – anche grazie alla comprovata obbedienza dei dissidenti – il Pd è diventato un partito personale, comandato col ricatto, il dileggio, l’insulto. Non solo perché ogni vincolo viene meno quando sono travolti principi fondamentali della Carta e perché, chiedendo la fiducia su una delega in bianco («indefinita e sfuggente nei criteri», nota la Cgil), il governo ha violato la Costituzione (e di ciò il presidente della Repubblica dovrebbe tener conto, invece di lasciarsi andare a impropri apprezzamenti del Jobs Act). Ciascun parlamentare del Pd ha il diritto e il dovere di decidere in piena autonomia anche perché il governo procede rovesciando di sana pianta il programma in base al quale i parlamentari democratici sono stati eletti. Un tale governo non va preservato. Va contrastato e fatto cadere al più presto, impegnandosi affinché il paese imbocchi la strada della riscossa democratica.
Dire, com’è stato detto, che negare la fiducia sarebbe stato «irresponsabile» perché la scelta sarebbe tra Renzi e la Troika è soltanto un modo per nascondere la realtà. Non solo questo governo si attiene in toto ai dettami di Washington, Bruxelles e Francoforte (o qualcuno si meraviglia per la soddisfazione di Draghi e della Merkel?). Lo fa, per di più, impedendo alla gente di capire e di sottrarsi alla morsa del nuovo regime che soffoca il paese. Se una politica di destra è fatta da un partito che si dichiara, almeno in parte, di sinistra, che senso hanno ancora queste vetuste parole, e come si può pensare di poter cambiare rotta?
Ma allora perché, ancora una volta, questo cedimento, che, come ognuno vede, demolisce la credibilità della sinistra democratica? Perché questa obbedienza che rischia di ridurre il dissenso interno a una farsa; che induce a parlare di tradimento del mandato parlamentare (questo ha detto in sostanza il senatore Tocci intervenendo in aula); che rende la minoranza complice del nuovo padrone del Pd, al quale non solo è offerta una preziosa sanzione di onnipotenza (delle sue sprezzanti risposte alle timide richieste di modifica della delega resterà memoria), ma è anche concessa gratis l’opportunità di esibire, quando serve, una patente contraffatta di sinistra? Si può tergiversare e predicare cautela, pur di sottrarsi al giudizio. Si può tacere, augurandosi di limitare il danno o di propiziare sviluppi positivi. Ci si illude. Da sé le cose non cambieranno certo in meglio. Noi stiamo piuttosto con il segretario generale della Fiom che arrischia un giudizio durissimo (votare la fiducia serve a «difendere le poltrone») e ne trae le dovute conclusioni («di un parlamento così non sappiamo che farci»).
Nondimeno, siamo tra i testardi che pensano che in politica non si è mai all’ultima spiaggia e che nessun frangente, per quanto grave, è irreparabile e definitivo. Anche in questo caso, nonostante tutto, staremo a vedere come andrà avanti questa storia e come si concluderà. Sentiamo che alcuni dissidenti saranno il piazza con la Cgil il 25 ottobre. E che un esponente della minoranza del Pd, l’onorevole D’Attorre, annuncia battaglia sul Jobs Act alla Camera, definendo «inaccettabile» che anche in quella sede il governo ponga la fiducia. Ne prendiamo atto. Osservando che, se le parole hanno ancora un valore, queste equivalgono a promettere che, in tale non improbabile evenienza, la sinistra del Pd arriverà finalmente a quella rottura che non ha sin qui nemmeno ventilato. Vedremo.
Intanto resta che viviamo giorni cupi, gravidi di pericoli, forieri di nuove violenze e di più gravi ingiustizie. Giorni che gettano nuove inquietanti ombre sul futuro di questa Repubblica.