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Vittorio Gregotti
Se l’architetto vuole solo stupire il mondo
22 Maggio 2006
Articoli del 2005
Un architetto che pensa bene. “Un mestiere travolto dal design. Dell’avanguardia resta solo l’idea di privilegiare l’infrazione assoluta subito accettata perché innocua”. Da la Repubblica del 3 settembre 2005

Negli anni ‘40 del XX secolo il nome di Andrej Aleksandrovic Zdanov era diventato il simbolo, un po’ caricaturale, della teoria del rispecchiamento e del realismo volgare cioè del principio che le arti in generale e l’architettura in particolare dovessero, con le proprie forme, essere ritratto dello stato della società e dei suoi poteri costituiti. Contro questa posizione si era mossa l’intera tradizione dell’avanguardia del primo ventennio del XX secolo, e lo stesso movimento moderno in architettura ad essa strettamente collegato, non solo nell’elaborazione delle forme del nuovo ma anche negli ideali di liberazione sociale ad essa connessi.

L’architettura quindi come coscienza critica delle contraddizioni collettive e come fondazione di proposte alternative: radicali, ingenue e generose.

A questo nucleo ideale e metodologico dell’internazionalismo critico tutt’altro che nazional popolare (come sembra credere Enrico Arosio in un articolo sull’ultimo numero dell’Espresso dedicato a Massimiliano Fuksas), anche la migliore tradizione del razionalismo italiano ha fatto riferimento, sia pure con varie interpretazioni ed accenti. Ciò che distingue la generazione (ma parlare di generazioni è criticamente assai ingannevole) o meglio il gruppo di architetti che vengono citati nell’articolo dell’Espresso (in verità esso è purtroppo assai più vasto), e ciò che li connette strettamente, è proprio il neo-avanguardismo stilistico e l’adesione ideologica allo stato delle cose, dei valori e dei comportamenti, così come essi sono, adesione in cui si è rovesciata di senso da una ventina d’anni la tradizione oppositiva dell’avanguardia ed il suo linguaggio.

I protagonisti di quell’avanguardia erano caratterizzati, pur tra molte confusioni, da un’attitudine strutturale, da un impegno ad un ricominciamento teoreticamente fondato di fronte alla presa di coscienza di un nichilismo in via di compimento, da una posizione di critica verso lo stato della società e dalla necessità di un ricominciamento radicale.

Ma mentre l’avanguardia lavorava sulla messa in discussione anche dei processi dell’arte, gli architetti attuali ne imitano gli effetti. Quindi resta solo il dilagare dell’idea dell’infrazione assoluta, rapidamente accettata perché innocua, ed altrettanto rapidamente superata, in un’area sempre più diffusa, incerta e tollerante in cui l’unica autentica infrazione sarebbe la ricostruzione della regola.

Invece di domandarsi quali azioni si possono compiere che non vengano immediatamente riassorbite ci si domanda cosa si possa fare per esserlo subito. E poiché ogni cosa ormai oggi necessita di un tocco estetico, il lavoro certo non manca.

Inoltre, le proposte di questa rinnovata sintassi (la cattiva coscienza del privilegio estetico è poi compensata in qualche caso da una spolverata di preoccupazione teatral-partecipativa ed ecologico-ambientale) rispecchiano in modo solo constatativo i cambiamenti del corpo sociale cui queste nuove forme sono destinate e le trasformazioni traumatiche cui sono sottoposte le grandi e piccole geografie metropolitane; affermano addirittura sordamente che le deregolazioni che travolgono la realtà sono fatti estetici da ammirare.

Nonostante, o forse proprio a causa di questo, il successo delle grammatiche neoavanguardiste e globaliste sembra essere vasto, almeno presso la maggioranza del pubblico dei consumatori indotti, del gruppo sociale decisivo dei clienti, dei comunicatori e delle stesse istituzioni.

Tutta l’architettura cioè sembra voler diventare "design" nel senso peggiore che questo termine, un tempo nobile, ha oggi assunto. Né disegno nel senso antico del termine, né progetto ma solo processo di intermediazione formale nello scambio di immagini delle merci contro merci che, come oggi si evidenzia, non è un ruolo da poco.

Credo quindi che si debba individuare nell’ideologia del "design", in quanto realizzazione dell’estetica diffusa in cui siamo annegati, l’anello di congiunzione tra nuova visualità, architettura e disegno urbano immaginato come collezione di oggetti ingranditi. Naturalmente si tratta, per me, di congiunzioni perverse, la cui figurazione è soprattutto interpretazione simbolica entusiasticamente constatativa del disastroso stato delle relazioni post-sociali e dell’uso antisignificante dei mezzi: ed oggi ovviamente anche dei mezzi elettronici.

Qualcuno ha scritto con ragione che l’estetica diffusa sta distruggendo gran parte delle verità delle pratiche artistiche: l’evento, cioè, si propone al posto dell’opera e l’artista è al primo posto nell’evento e soprattutto, come scriveva Harold Rosenberg all’inizio degli anni sessanta, non è importante essere artisti: importante è convincere gli altri che lo si è. Ed in questo artisti visuali, pubblicitari, designer, modisti e naturalmente anche una parte degli architetti sono tutti tra loro concorrenti sullo stesso piano.

Per vincere allora bisogna stupire, essere diversi ad ogni costo, anche se tante cose diverse producono solo il rumore indistinto dell’uniformità: oppure rappresentare per immagini il mondo secondo l’ideologia dell’omogeneità dei comportamenti e delle loro prevedibili infrazioni anziché secondo le diversità profonde e le loro contraddizioni. Ma se l’architettura ha un’immagine non è solo immagine.

«Un’architettura degna dell’uomo - scriveva Adorno nel 1965 - deve avere degli uomini e della società un’opinione migliore di quella corrispondente al loro stato reale»; o, ancora meglio, anche delle sue speranze. Dimenticare tutto questo non è solo colpevole distrazione ma segno palese della nostra volontà di smarrire il senso stesso delle cose e di noi stessi e non solo dell’architettura.

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