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19981128 Lettera a Piero Bevilacqua (e risposta)
31 Agosto 2008
Interventi e relazioni
Piero Bevilacqua è un bravissimo storico. Consiglio a tutti almeno tre dei suoi libri: Sull’utilità della Storia, Venezia e la Laguna, Tra natura e storia. Una presentazione del suo libro su Venezia non mi è piaciuta, perciò gli ho scritto questa lettera, che pubblico qui con la sua risposta.

Venezia, 28 novembre 1998

Caro Piero, sono rimasto molto deluso dalla tavola rotonda di presentazione del tuo libro, ieri sera. L’ho seguita con l’attenzione di chi, immobilizzato a letto da una nevrite alla caviglia, puo’ dedicarsi interamente all’ascolto. L’ho trovata molto più farcita da affermazioni frettolose e fuorvianti che di riflessioni stimolanti. Il tuo bellissimo libro avrebbe meritato di meglio.

Permettimi di esporti alcune mie idee a proposito di un punto centrale della proposta culturale che emerge dai tuoi scritti (la “modernità” che oggi bisogna perseguire), e di due questioni che, quasi a corollario, da quel punto discendono, e che sono centrali per il futuro di Venezia (le difese mobili alle bocche di porto e il sistema veneziano dei trasporti: vulgo, il Mose e la Sublagunare).

Venezia e la “modernità”

È un tema che bisogna prendere un po’ da lontano. Riprenderò alcuni temi che ho esposto l’anno scorso in un dibattito su un “parco della laguna”.

Partirei da una constatazione. Lo sviluppo delle forze produttive ha provocato benefici immensi al genere umano, nell’epoca del sistema capitalistico-borghese. Ma anche enormi danni. Tra questi, una rottura dell’equilibrato rapporto tra produzione e natura che aveva contrassegnato millenni della nostra storia. Negli ultimi secoli la natura è stata negata nella sua personalità, ridotta a mero oggetto manipolabile e mercificabile: è stata cancellata e sostituita dalla tecnologia. Quest’ultima non è stata più indirizzata a guidare la natura, rispettandone leggi e ritmi, a foggiarne le forme costruendo con lei paesaggi amici dell’uomo. E l’economia non ha più considerato la natura come un insieme di risorse da impiegare con parsimonia: l’ha trattata come un giacimento da cui estrarre distruggendo, senza risparmio né attenzione al futuro.

Oggi i danni di quest'atteggiamento appaiono in tutta la loro evidenza. Proseguire in questo modo dissennato significa destinare il genere umano alla scomparsa, il nostro pianeta alla morte prematura. Molti sono d’accordo sul fatto che occorre invertire la tendenza. Molti si dicono convinti che occorre individuare, sperimentare e praticare un modo di produrre che foggi la natura rispettandola, che utilizzi le risorse che la natura ancora offre accrescendone le qualità. Questo – ne sono fortemente convinto - è il compito che spetta alla nostra generazione e a quelle che ci seguiranno, se vogliamo che un giorno il sole non tramonti in un immenso deserto.

Come accingersi però a questa memorabile impresa? Da dove partire? Saremmo davvero spreconi (e non avremmo capito nulla di ciò che ci hai narrato del rapporto tra “Natura e Storia”) se non pensassimo di mettere a frutto le risorse di cui disponiamo. Da questo punto di vista sembra a me evidente che Venezia e la sua laguna siano una risorsa preziosa. Essa testimonia, e può insegnare, un rapporto tra lavoro e cultura dell’uomo, e forze della natura, sapiente come pochi altri.

Qui l’uomo (il tuo libro su “Venezia e le acque” lo racconta in modo magistrale) ha saputo guidare l’evoluzione della natura, giorno dopo giorno e stagione dopo stagione, per arricchire le risorse del sito: perché le une e l’altro, le risorse e il sito, servissero meglio, il più durevolmente possibile, la sopravvivenza e lo sviluppo degli uomini e della società e il loro costante arricchimento. La scienza e la tecnica delle costruzioni, dei materiali, dell’architettura, dell’urbanistica; la pesca e la coltivazione delle acque e la conservazione dei suoi prodotti; il disegno e la produzione delle imbarcazioni e di tutte le loro componenti; l’esplorazione, il rilevamento, il disegno del mondo e delle sue parti vicine e lontane; l’arte del governo della società e dei rapporti tra le persone e tra i popoli: tutto ciò i veneziani hanno elaborato in forza e in virtù dell’esigenza di convivere con la natura, trasformandola senza distruggerla e rispettandola senza imbalsamarla.

Due destini possibiliper un’oasi di saggezza

Vedo insomma Venezia come un’oasi nella quale è depositata una saggezza che il mondo contemporaneo ha dimenticato. Un’oasi che può essere considerata in due modi.

Può essere considerata una anacronistica sacca di resistenza di un passato che non può più insegnare nulla, e che va eliminata, nei due modi possibili: alla Marinetti, sosituendola fisicamente con una nuova realtà di cemento e acciaio, oppure cristallizzandola nella sterilità di un museo o di una “riserva indiana”. Sono in realtà due modi complementari di omologare Venezia ai modelli di consumo e di produzione, di vita e di lavoro ormai dominanti - e dovunque in crisi

Oppure, viceversa, Venezia può essere considerata e governata come una scuola di modernità: come un luogo che può consentire di sperimentare, a vantaggio di tutto il mondo, un modo rinnovato di produrre. Rinnovato rispetto a quello che vogliamo lasciarci dietro le spalle, perché non distruttivo delle risorse e realmente “sostenibile”. E rinnovato rispetto a quello che due secoli fa la Repubblica Serenissima ci lasciò perché capace di utilizzare, in una prospettiva non più “industrialista”, le innovazioni che la scienza di questi ultimi secoli ha messo a disposizione del genere umano.

Non era questa, del resto, l’ispirazione che stava dietro alla proposta, culturale prima che politica, che vide Massimo Cacciari assumere per la prima volta il ruolo di Sindaco di Venezia, nel 1992?

Il Mose: tre ragioni di preoccupazione

Ma veniamo adesso alle due questioni di merito: il Mose e la Sublagunare. Se il Mose mi preoccupa non è perché sia una “grande opera”. Non mi preoccupa cioè per la ragione opposta e simmetrica rispetto a quella per cui piace a De Michelis. Non sono insomma contrario ideologicamente, né in linea di principio, alle grandi opere: in fondo l’editore Laterza ha pubblicato il mio libro nella collana “Grandi opere”, e non mi è dispiaciuto affatto. Venezia ha conosciuto del resto altre “grandi opere”, alle quali deve la sua sopravvivenza: dalla grandiosa diversione dei fiumi, su cui si azzannarono Sabbadino e Cornaro, ai settecenteschi Murazzi di pietra d’Istria progettati dal matematico Zendrini.

Questa “grande opera”, il progetto Mose, ha però tre particolarità preoccupanti:

(a) comporta l’artificializzazione permanente degli unici tre collegamenti residui tra mare e laguna (non è infatti costituita soltanto, come dice Francesco Indovina, da una serie di cassoni sommersi, ma anche, e irreversibilmente, da tre immani cordoni di calcestruzzo armato che collegano le due sponde d’ogni bocca, e interrompono definitivamente la continuità naturale del fondale della laguna con quello marino);

(b) a differenza dagli interventi di qualche secolo fa, è pensata con tecnologie e materiali che non hanno nulla a che fare con quelli “naturali” che per secoli sono stati adoperati: non voglio dire che questa sia una ragione dirimente, ma certo dovrebbe indurre a una maggiore cautela nel decidere;

(c) è un’opera di cui a mio parere i benefici non sono commisurati ai costi, davvero straordinari: se il loro elevato ammontare è un atout del progetto per Indovina (che vede in questo grandi possibilità di occupazione di forza lavoro) e per De Michelis (che si anima pensando al fervere delle attività delle imprese), a me, che forse in Laguna ho compreso l’importanza della parsimonia nell’impiego delle risorse, a me sembra un argomento sul quale riflettere a fondo.

Intendiamoci. Se il Mose fosse davvero necessario per salvare la laguna e Venezia, Chioggia, Murano, Burano e le altre perle disseminate dalla natura e dalla storia, pas de problèmes anche se la spesa fosse rilevante. Il punto è che non mi sembra affatto dimostrato che quell’intervento sia davvero necessario. Questa, a mio parere, è la ragione decisiva per non schierarsi con il nutrito plotone di sostenitori del Mose in nome della salvaguardia di Venezia e, soprattutto, dell’ideologico entusiasmo per le “magnifiche sorti e progressive” della modernità e della tecnologia tardo-industriale.

Il Mose è necessario?

Come sai, gli studi che sorreggono la proposta del Mose (lo Studio di impatto ambientale, redatto dal Consorzio Venezia Nuova) formulano tre scenari, corrispondenti ad altrettante ipotesi di innalzamento del livello delle acque. In relazione a ciascuno scenario è stato calcolato il numero di chiusure delle paratie mobili nel corso di un anno per evitare che Venezia (e gli altri centri) siano invasi dalle acque.

Il terzo scenario, corrispondente all’ipotesi più alta, è quello al quale alludeva Enzo Tiezzi quando, per tagliar corto con le querimonie dei dubbiosi, ha sparato la battuta arrogante: “Non è più tempo di raccogliere l’acqua con i secchi e le spugne, è tempo di decidersi a chiudere i rubinetti”. In questo scenario, per il congiunto effetto dei fenomeni già in atto e dell’aumento dei livelli oceanici causato dell’aumento della temperatura terrestre, bisognerebbe (secondo le analisi previsive dell’Ufficio Maree del Comune, che da anni segue il fenomeno) chiudere le bocche quasi 400 volte all’anno!

La laguna, insomma, sarebbe sempre chiusa. Il ricambio d’acqua sarebbe impedito, e così ogni attività portuale. Se allora si volesse assumere questo scenario come attendibile, e non solo come un manganello dialettico da agitare nelle polemiche e nel lobbying, le ipotesi operative sarebbero soltanto due: o chiudere definitivamente la laguna chiudendo definitivamente le tre bocche con solide dighe di cemento e pietrame: ridurre cioè la laguna a uno stagno, la cui depurazione dovrebbe essere tutta artrificiakle e il cui ambiente naturale sarebbe radicalmente modificato; oppure collocare i “rubinetti Tiezzi” sul Canale d’Otranto (o alle Colonne d’Ercole). Del resto, se il livello dell’Adriatico (e magari del Mediterraneo) crescesse tanto da superare il livello di un metro sul livello medio del mare 400 volte all’anno, bisognerebbe domandarsi quali provvedimenti dovrebbero esser presi a Spalato e Ancona, a Brindisi e a Rovigno, e nei numerosissimi altri centri grandi e piccoli dell’Adriatico (e magari del Mediterraneo) che vivono a contatto col mare.

Comunque una cosa è certa: se si manifestasse lo scenario collegato alla permanenza dell’effetto serra nelle dimensioni previste, il Mose applicato alle porte della laguna non servirebbe affatto.

Meno drammatici sono gli altri due scenari, che comporterebbero la necessità di intervenire con le chiusure da 10 a 70 volte all’anno. Ma qui vale la pena di soffermarsi sulla famosa questione degli “interventi diffusi” (riapertura delle parti della laguna occluse, rimodellamento dei fondali e ricostituzione del tessuto canalizio naturale, prudente sollevamento delle pavimentazioni stradali là dove sono a livelli inferiori a 120 cm sul livello medio del mare, ripulitura dei canali cittadini ecc.). Lo Studio d’impatto ambientale del Consorzio Venezia Nuova produce dati e simulazioni dai quali risulterebbe un’influenza del tutto marginale degli “interventi diffusi”. Il Comitato dei cinque esperti “di fama mondiale” prende per buoni i dati del Consorzio, e le conclusioni che esso ne trae. Ma il Laboratorio Grandi Masse del Consiglio Nazionale delle Ricerche dimostra che la riduzione dei “picchi”, cioè delle punte massime di marea, provocherebbero riduzioni consistenti, dell’ordine di 20-25 cm. Ciò significherebbe che, se quegli interventi si facessero, la frequenza delle acque alte si ridurrebbe a pochi giorni all’anno: così come è sempre stato, da quando Venezia è Venezia.

La convivenza quotidiana con l’acqua, il ricorso sistematico alla manutenzione, ai piccoli assestamenti, al “cuci e scuci”, non fanno del resto parte della cultura della città ben più delle eccezionali “grandi opere”? E’ difficile che tu non ne convenga, caro Piero. Non è casuale, del resto, che chi sostiene l’assoluta necessità del Mose sono proprio quelli dalle cui parole emerge con chiarezza il pensiero remoto: Venezia deve diventare come tutte le altre città del mondo. La mia ipotesi è invece l’opposta: tutte le altre città del mondo devono diventare Venezia, imparare come qui si è fatto per secoli a convivere con gli eventi naturali, a governarli senza cancellali e, anzi, arricchendone le proprie esperienze di vita.

E infine, vediamo le cose dal punto di vista dell’occupazione operaia. Certo, i mirabolanti investimenti per il Mose (secondo le stime di oggi del Consorzio, 4.440 miliardi di lire) provocherebbero un forte afflusso di imprese, materiali e prodotti, lavoratori, in gran parte da fuori dell’area veneziana. Il che non è certamente male. Ma non credo che si sia riflettuto abbastanza sul grande e durevole contributo che potrebbe dare alle forze di lavoro e alle imprese locali una dispiegata azione di “manutenzione ordinaria e straordinaria” della città e della laguna.

Quella manutenzione alla quale tu stesso, Piero, richiamavi nell’intervento conclusivo alla tavola rotonda, come grande insegnamento della Repubblica Serenissima da riprendere oggi. Quella manutenzione che oggi, a causa dell’abbandono in cui è stato lasciato l’intervento quotidiano sulla città negli ultimi due secoli, richiederebbe (se lo si assumesse come asse portante di un nuovo sviluppo) l’avvio di una gigantesca opera di ripristino dell’ambiente lagunare, di rimodellamento dei suoi fondali e di restauro delle sue rive, di ricostituzione delle sue difese e dei suoi ecotopi, di restauro e ripristino e adeguamento delle pavimentazioni e degli arredi urbani, di manutenzione straordinaria dei canali e delle barene.

Quanto le chiacchiere sul mirabolante “FARE Grande, Moderno e Progressista”, sul Mose e sulla Sublagunare distraggono oggi di attenzione, risorse, energie intellettuali, attenzione dell’opinione pubblica, spinta sindacale, dalla enorme massa di interventi diffusi su tutta l’area della laguna, che pure sono previsti e in parte già progettati?

…e la Sublagunare

Mi ha meravigliato molto che l’ex ministro per i Lavori pubblici, Paolo Costa, abbia ripreso l’ipotesi della “metropolitana sublagunare”, e che alla cosa abbia dato credito il nuovo Segretario della Camera del lavoro di Venezia. A me quella proposta è sempre sembrata una grande sciocchezza.

Intanto sono fra i molti che sono convinti che Venezia è massacrata dal turismo “mordi e fuggi”. Poiché la metropolitana si giustifica solo con flussi di massa, la Sublagunare non potrebbe non produrre l’effetto di drenare ulteriori flussi di visitatori a Piazza San Marco e negli altri siti, già resi invivibili dal turismo attuale. Negli anni in cui si cercava di ragionare e non ci si faceva sedurre dall’ideologia del progresso, si era convinti che il turismo dovesse essere “governato”, e che a questo fine fosse utile e opportuno arrestare i flussi ai terminali di terraferma (Fusina e Tronchetto), e da lì farli proseguire in battello per Venezia.

Se si vuole facilitare l’accessibilità alle funzioni direzionali di Venezia, allora la soluzione è stata indicata da molti anni, proprio a partire dai sindacati veneziani. Basterebbe riorganizzare l’attuale rete del ferro in Terraferma e utilizzare l’imponente asta ferroviaria del Ponte della Libertà per portare i pendolari a Santa Lucia e alla Marittima: luoghi dai quali, come a tutti è noto, si giunge facilmente e piacevolmente in ogni parte della città a piedi o con i civilissimi vaporetti.

Un’ultima annotazione a questo proposito. Della qualità di Venezia, del suo insegnamento terribilmente moderno, fanno parte integrante il tempo e il modo dei percorsi. Venezia è bella anche perché ti permette di vivere il tempo dei percorsi, a piedi o in vaporetto, come degli spazi nei quali ti distendi e ti arricchisci godendo la visione della città, delle sua case, i suoi spazi, i suoi abitanti. Il tempo del percorso non è a Venezia, come è nelle metropoli contemporanee, una sofferenza la cui durata va minimizzata, ma un piacere che s’inserisce nella giornata come una pausa naturale e gioiosa. Vogliamo eliminare anche questo?

Tuo

Edoardo Salzano

Caro Eddy,

grazie per la tua lunga e bellissima lettera: ma è un saggio! Ieri sera, tornato a casa abbastanza stanco, ho tirato fuori dalla borsa la solita montagna di carta, ( lettere, fax, dattiloscritti da leggere, ecc.) e stavo per poggiarli in un angolo per affrontarli in tempi migliori... Poi mi sono ricordato che doveva esserci la tua lettera, l'ho cercata e trovata, mi sono messo a leggerla e la concentrazione e la lucidità sono ritornate come per incanto. Dopo un paio di pagine mi sono accorto che sorridevo, per una curiosa e strana sensazione, che non avevo mai percepito prima: l'accordo era così pieno con le cose che leggevo da avere l'impressione che quella lettera me la fossi scritta io.

Sono dunque assolutamente d'accordo con te, su tutti i punti che hai toccato e non è il caso che ripercorra quanto tu hai già detto così bene. Sì anch'io avrei desiderato che si approfondissero di più certi temi contenuti nel mio libro. Ma, sai, a queste cose sono rassegnato: la presentazione serve a fare la pubblicità: e di questi tempi è già tanto avere una discussione pubblica, per giunta trasmessa per radio.

Sulla modernità di Venezia, alle cose giustissime che dici vorrei aggiungere un'ulteriore considerazione. Anche molti dei nostri amici intellettuali, persone spesso generosamente impegnate a tener viva la fiammella dell'impegno civile, sono in molti casi intrappolati nel sortilegio del “progressismo”. Ancora non si sono accorti di quale sia la tendenza profonda del nostro tempo, che trascina ogni cosa verso l'abisso della esemplificazione funzionale. Eppure basterebbe aprire gli occhi e leggere il mondo così com' è per capire i segnali quotidiani inequivocabili che esso ci manda. Ma proprio tale comprensione dovrebbe vivamente consigliarci di scorgere in Venezia un tesoro di diversità da conservare proprio per la sua irriducibile alterità. Non si riesce ancora a capire che la riccezza inestimabile del nostro tempo è tutto ciò che si sottrae alle logiche del nostro tempo... Tutto ciò che fa eccezione, che non è producibile industrialmente, che non ubbidisce a criteri rigidi di razionalità: starei per dire, tutto cio “che non funziona”. Il silenzio dei campi e delle calli, il poter andare a piedi ( o in barca come tu ricordi ) con i tempi lenti di un antico e ormai perduto rapporto fra cittadino e spazio urbano: dovrebbero costituire non un impaccio del vivere a Venezia, ma uno dei suoi ineguagliabili privilegi nel mondo presente. Certo, c'è il problema di farla vivere.Occorre una grande e originale progettualità politica per rendere viva la città in un modo che è diverso dalle altre. Ma prima di ogni cosa esiste un gigantesco problema culturale: la rivalutazione della modernità di Venezia, contenuta nella sua estraneità alla civiltà capitalistica di massa, all'eta fordista peraltro ormai tramontata.

E vengo brevemente al MOSE. Ho ritegno a intervenire sul tema, perché su di esso non posso vantare le competenze che invece mi permettono di giudicare dei fatti del passato. Sono molto sensibile a tutte le sensate obiezioni che tu muovi al progetto. La mia preoccupazione principale, espressa molto succintamente, è tuttavia la seguente. Io temo che il ripetersi sempre più frequente delle acque alte - a parte la minaccia incombente di episodi estremi come l'alluvione del 1966 - possa rendere progressivamente così disagevole vivere a Venezia da avviarne il declino definitivo. Per tacere del fatto che una città frequentemente allagata, alla fin fine ostile alla vita quotidiana dei suoi cittadini, costituirebbe un argomento inoppugnabile contro le nostre idee, contro la tesi di una modernità di Venezia fondata sulla sua refrattarietà agli “agi” della città capitalistica. Le nostre voci reclamerebbero nel deserto.

Tu aggiungi, fra le varie altre considerazioni, che un innalzamento generale dei mari per fenomeni globali renderebbe inutile il MOSE. E' quanto ho già scritto anch'io nel libro. E tuttavia io credo che occorre essere un pò più duttili e accogliere molte variabili possibili quando si proietta lo sguardo verso il futuro. Siamo proprio sicuri che nel momento in cui i segnali dell'innalzamento dei mari diventassero allarmanti le popolazioni della terra continuerebbero a consentire l'attuale modo dissennato di produrre ? Non c'é una sottovalutazione della possibilità di una correzione dovuta alla pressione dei gruppi intellettuali, degli ambientalisti, dei cittadini, ecc. Certo, non è detto che succeda. Questo ottimismo progressista lo lasciamo agli sciocchi, e a chi vuole continuare a farsi gli affari suoi. Ma noi dobbiamo credere che esso possa verificarsi. Su cosa, altrimenti, si fonderebbero le ragioni della nostra lotta?

Un caro saluto

dal tuo Piero.

P.S. A proposito di grandi opere. Hai trovato il mio messaggio telefonico nel quale ti dicevo quanto è bella la tua “grande opera” urbanistica pubblicata da Laterza ?

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